Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mercredi, 23 mars 2011

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

di Sergio Cararo

 Fonte: megachip [scheda fonte]

 

“E’ una rivolta dei giovani. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione… noi ora la stiamo completando”. In questa breve considerazione che il colonnello Tarek Saad Hussein riferisce al settimanale statunitense “Time” a fine febbraio, è possibile comprendere gran parte del processo che è stato impropriamente definito come “rivoluzione libica” (1)

pompeguerrPerché è saltato l’equilibrio di potere di Gheddafi? Chi sono “quelli di Bengasi”? Questa è una vera guerra del petrolio, rivelatrice della competizione globale e piena di incognite

 

 

Il col. Hussein è uno degli alti ufficiali del regime di Gheddafi passato quasi subito con i ribelli di Bengasi. Insieme a lui c’è tutto un settore rilevante dell’apparato statale del regime che ha dato vita allo scontro mortale con Gheddafi per sostituirlo con una nuova leadership. E’ vero, hanno mandato prima avanti i giovani. A Bengasi il 15 febbraio erano stati i giovani e i familiari dei prigionieri politici della rivolta del 2006 nella capitale della Cirenaica ad essere scesi in piazza davanti al commissariato dentro cui era stato rinchiuso l’avvocato Ferhi Tarbel, difensore degli arrestati nella rivolta di cinque anni prima. La manifestazione del 15 febbraio era stata repressa duramente – come purtroppo è la norma in Libia e in tutti i paesi del Medio Oriente. Due giorni dopo, una nuova manifestazione, vedeva però i manifestanti, già armati, passare subito all’escalation sul piano militare contro i poliziotti del regime di Gheddafi (2)

Una tempistica rapidissima e bruciante che non ha avuto neanche il tempo di manifestarsi come rivolta popolare di piazza per diventare subito una guerra civile. E’ vero, hanno iniziato i giovani, esattamente come avevano fatto i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Algeria o – in tempi e modi diversi – nelle strade di Roma o nelle banlieues francesi. Avevano tutte le ragioni per farlo, anche nella Libia di Gheddafi. Ma dietro i giovani libici, hanno preso subito la situazione in mano – piegandola ai loro interessi - gli uomini del vecchio apparato di regime in rotta con il leader e ansiosi di ridefinire gli equilibri interni sconvolti dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalle misure “liberiste ma non liberali” introdotte da Gheddafi nel 2003.

La brusca e feroce escalation militare nella brevissima rivolta popolare libica, ci ha convinti che quella avviatasi era piuttosto una guerra civile e per alcuni aspetti con tutte le caratteristiche di una “guerra di secessione” come avvenuto negli anni Novanta in Jugoslavia o più recentemente in Sudan. Una guerra civile ed una possibile secessione della Libia alla quale non sono certo estranei gli interessi delle potenze europee e degli USA sul petrolio e il gas libico.

Su questa valutazione abbiamo introdotto una prima chiave di lettura sulla crisi in Libia che ci ha portato molti consensi ma anche numerose critiche in molti ambiti della sinistra, persino di quella più radicale.

 

 

 

 

 

 

 

Con il brutale e consueto intervento militare, con i bombardamenti sulla Libia da parte di Francia, USA, Gran Bretagna ed altre potenze della NATO, la discussione potrebbe dirsi conclusa attraverso la realtà dei fatti. I fatti spiegano la realtà meglio di mille opinioni. Eppure riteniamo che questa vicenda della Libia debba e possa prestarsi ad un lavoro di chiarezza, informazione, formazione di un punto di vista critico e rivoluzionario della realtà, che stenta enormemente a farsi strada tra tante soggettività della sinistra e degli stessi attivisti dei movimenti No war.

Perché è saltato l’equilibrio su cui si reggeva il potere di Gheddafi?

Uno splendido articolo del direttore del giornale arabo Al Quds Al Arabi segnala la preoccupazione per uno scenario che spiani la strada a quello che l’autore definisce il “Chalabi libico”. Abd al Bari Atwan, direttore palestinese di questo autorevolissimo giornale in lingua araba, descrive perfettamente la trappola dentro cui Gheddafi è caduto – volontariamente – per mano dei suoi nuovi amici occidentali, i quali, secondo Atwan, “hanno utilizzato con il colonnello libico lo stesso scenario che avevano utilizzato con il presidente iracheno Saddam Hussein, con alcune necessarie modifiche che sono il risultato delle mutate condizioni e della differente personalità di Gheddafi”. Il colonnello si è disperato perché i suoi nuovi amici occidentali non lo hanno aiutato mentre i ribelli di Bengasi lo stavano accerchiando. Se l’alleanza occidentale era stata costretta a sbarazzarsi di Mubarak, afferma Atwan, perché mai sarebbe dovuta intervenire a salvare Gheddafi? L’illusione del leader libico derivava dalle concessioni fatte a USA e Gran Bretagna nel 2000 e che nel 2003 lohanno portato fuori dalla lista nera dei “rogues states” e quindi lontano dai bersagli della guerra infinita scatenata dall’amministrazione Bush nel 2001.

 

 

 

 

“Washington e Londra hanno utilizzato l’esca della “normalizzazione” e della riabilitazione del regime libico, che avrebbe aperto la strada al suo ritorno nella comunità internazionale in cambio della sua rinuncia alle armi di distruzione di massa” – osserva Atwani – “Ciò avvenne nel 2003, cosicché americani e britannici poterono dire che la loro guerra in Iraq aveva cominciato a dare i suoi frutti. Dopo averlo spogliato delle armi di distruzione di massa, lo hanno adescato spingendolo a porre le sue riserve di denaro nelle banche americane e ad aprire nuovamente il territorio libico alle compagnie petrolifere britanniche ed americane, ancora più che in passato”. (3)

L’analisi dell’analista palestinese è spietata ma pertinente: “L’errore più grave che Gheddafi ha commesso è stato quello di fare all’Occidente tutte le concessioni che quest’ultimo gli chiedeva, e di non fare invece alcuna concessione al suo popolo che gli chiedeva libertà, democrazia e una vita dignitosa”.

La storia degli ultimi dieci anni ci racconta di un Gheddafi che ha aperto agli investimenti stranieri in cambio del ritiro delle sanzioni economiche a cui la Libia era sottoposta da anni. Non solo, nel 2033 vara un pacchetto di misure che include la privatizzazione di 360 imprese statali. “La Libia dopo la svolta compiuta da Gheddafi nei primi anni 2000” si è aperta agli investimenti occidentali - scrive un autorevolissimo sito specializzato sul Medio Oriente – Nel paese sono affluiti capitali italiani, inglesi, americani, turchi, cinesi”. Nel 2003 la Libia era diventata una delle nuove frontiere della globalizzazione del continente” – riferiscono gli analisti dell’autorevole sito Medarabnews – “il nuovo Eldorado per molte società europee e americane” (4)

Mentre la produzione petrolifera è rimasta bloccata dalle quote imposte dall’OPEC (ma con significativi aumenti del prezzo del petrolio), tra il 2003 e il 2007 la produzione di gas naturale libico è praticamente triplicata. Non solo, la qualità e i costi di recupero del greggio relativamente bassi del petrolio libico, “rendono la Libia un importante attore del settore energetico globale” (5).

La Libia si è trovata così a disporre di una enorme liquidità finanziaria da investire – tramite il boom dei fondi sovrani sviluppatisi nei paesi petroliferi – in banche e attività nei maggiori paesi capitalisti. Da qui l’entrata in Unicredit, Finmeccanica, Eni o la permanenza nel capitale della Fiat.

Per il regime di Gheddafi sono dieci anni d’oro dopo anni di embargo e ostracismo. Incontri con Condoleeza Rice e l’amministrazione USA. Incontri favolosi con Berlusconi (ma anche con Prodi). Non solo. Vengono siglati dei Trattati bilaterali con i paesi europei che sono posti a guardia delle due maggiori vulnerabilità dell’Unione Europea: garanzie dell’approvvigionamento energetico e blocco delle ondate migratorie. Gheddafi diventa così il garante di entrambe.

Qualche giorno prima degli incidenti di Bengasi a febbraio, lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio rilasciava una valutazione del nuovo corso libico quasi entusiasta: “Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza” (6)

A sconquassare la “Belle Epoque” libica, così come del resto del mondo legato al ciclo economico del capitalismo euro-statunitense, è arrivata la crisi finanziaria e globale del 2008/2009. Secondo alcuni osservatori attenti a valutare le conseguenze della crisi libica sull’Occidente, il punto di rottura è stato proprio questo: “La crisi finanziaria tra il 2008 e il 2009, ha ridotto del 40% i ricavi dei pozzi di petrolio, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore” (7).

E’ la crisi globale, dunque, la stessa crisi sistemica che sta squassando i capitalismi negli USA e in Europa a mettere in crisi l’equilibrio raggiunto tra Gheddafi e le varie componenti (economiche e tribali) su cui si è retto per 41 anni il regime libico. Ma non c’è solo questo.

La svolta panafricana di Gheddafi nel 1997, che porta alla rottura definitiva con l’ipotesi panaraba perseguita fino ad allora, apre le frontiere della Libia ad una enorme immigrazione dall’Africa che destabilizza gli equilibri nella popolazione, nel mercato del lavoro e nella distribuzione delle rendite petrolifere. Su una popolazione libica di 6,5 milioni di abitanti, si tratta di “circa un milione e mezzo (forse due milioni, nessuno conosce la cifra esatta) di lavoratori provenienti da paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, Il Sudan, l’Etiopia, la Somalia etc. forniscono manodopera a bassissimo costo per l’industria petrolifera, il settore edile, quello dei servizi, l’agricoltura” ma l’apertura delle frontiere libiche all’Africa sub-sahariana “suscita gravi tensioni nel paese a causa dell’enorme afflusso di immigrati” (8)

L’effetto di questa immigrazione nelle relazioni sociali in Libia, è anche la causa della vera e propria esplosione di episodi razzismo contro gli africani (additati come “mercenari di Gheddafi”) da parte dei ribelli di Bengasi, segnalati anche da Amnesty International e Human Rights Watch e da tutti i corrispondenti e inviati nelle zone controllate dai ribelli.

“La rivolta libica ha innescato la più vasta esplosione di violenza razziale registrata in un paese nordafricano….Lo stesso regime del Colonnello è corresponsabile di un’ondata di razzismo cos’ feroce. I nemici del colonnello stanno istigando sciovinismo e xenofobia contro i neri africani. Permettere che un simile, palese fanatismo razzista si diffonde all’interno delle aree “liberate” è rischioso” scrive un autorevole giornale arabo decisamente ostile a Gheddafi (9).

Chi sono “quelli di Bengasi”?

La domanda che in molti si pongono e alla quale pochi sanno o vogliono dare risposte è: chi sono i ribelli contro Gheddafi? Qualcuno la risolve con troppa semplicità definendoli come “il popolo libico” e dunque i nostri alleati morali e politici. Altri brancolano totalmente nel buio. Altri ancora li guardano con sospetto solo dopo averli visti inneggiare ai bombardamenti della NATO sulla Libia così come fecero i kossovari dell’UCK in Jugoslavia nel 1999. Conoscere serve per capire, e capire serve a definire la propria azione politica.

Secondo alcuni analisti dei think thank vicini alla NATO e ai suoi circoli in Italia, l’interrogativo è se la rivolta contro Gheddafi e nelle rivolte avvenute nei paesi del Maghreb “evolverà verso un nuovo sistema politico più stabile, in grado di soddisfare le esigenze delle nuove classi che hanno iniziato questo processo, oppure se, in mancanza di ciò, gli stati arabi continueranno a indebolirsi fino a fallire” (10).

La rottura del patto con Gheddafi, farebbe emergere in Libia “l’esistenza di una elite di funzionari civili e filo-occidentali che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto” sostiene l’Istituto Affari Internazionali (11).

Altri analisti preferiscono alimentare lo schema secondo cui la rivolta libica è stata in tutto simile a quelle della Tunisia e dell’Egitto, con un ruolo preponderante dei giovani e soprattutto di giovani interni alla modernità ed estranei alle eredità tribali della struttura sociale libica. “Il movimento ribelle ha dimostrato una maturità democratica insospettata e una stupefacente capacità di auto-organizzarsi e di coordinare le diverse città e le diverse componenti della rivolta. Anche in questo caso i giovani hanno giocato un ruolo di primo piano nella gestione delle proteste e della lotta contro il regime”. E a proposito di giovani gli estensori di questa analisi precisano: “I giovani libici si affacciano sul Mediterraneo e guardano all’Europa. Essi hanno formato la loro coscienza anche grazie a strumenti come internet e i social network che hanno favorito il fluire delle idee e l’abbattimento delle barriere solitamente presenti in un regime dittatoriale” (12).

Questa analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” opta decisamente per una visione generazionale, moderna e conseguentemente democratica della rivolta libica, offrendo un modello perfettamente coincidente con quanto le società civili europee potrebbero e vorrebbero desiderare per sentirsi in una sorta di comunità di destino con i ribelli libici.

Altri osservatori insistono invece molto sulla dimensione tribale dei rivoltosi contro Gheddafi. In alcuni casi la strumentalità di questa analisi è evidente cercando di alimentare il punto di vista sionista e neoconservatore statunitense. Secondo costoro i ribelli di Bengasi o già sono o possono diventare manovalanza per l’estremismo islamico. Le notizie sull’emirato islamico fondato a Derna dai ribelli anti-Gheddafi hanno circolato abbondantemente ma non hanno trovato finora conferme significative. Certo, la Cirenaica è la regione libica dove l’influenza dei gruppi islamisti – nonostante la repressione – è rimasta più forte. L’ultima rivolta – quella di Bengasi nel 2006 contro le provocazioni del ministro italiano Calderoli – era apertamente ispirata e sostenuta dai gruppi islamisti e fu repressa da Gheddafi con il consenso e il plauso di tutti i governi europei, arabi “moderati” e dagli Stati Uniti.

In altri casi, la chiave di lettura dello scontro tribale non indugia nell’alimentare il fantasma di Al Qaida, ma segnala come la struttura tribale della Libia abbia da un lato impedito la costruzione di uno Stato propriamente detto e dall’altra ne minaccia la precipitazione tra “gli Stati falliti” evocando lo spettro della Somalia. Secondo un esperto statunitense di un centro studi sul Medio Oriente ed ex agente della CIA nella regione, le tribù contano molto, anzi “sono decisive” nella guerra civile in atto in Libia. “Dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio delle forze, prendendosi molte rivincite” (13).

Certo la struttura tribale in Libia non è affatto un dettaglio. Alcuni ne contano 140 alle quali apparterrebbero l’85% dei libici, di cui due/tre più importanti di altre. Gheddafi negli anni ’90, aveva rinnovato la propria alleanza con i leader tribali, le tribù diventarono di fatto i garanti dei valori sociali, culturali e religiosi del paese. In particolare strinse un’alleanza con la tribù Warfalla, la principale tribù della Tripolitania (circa un milione di persone). I posti chiave dei servizi di sicurezza vennero dati ai membri delle tribù Qadhafha e Maqariha, la prima è la tribù dello stesso Gheddafi, alla seconda appartiene l’ex delfino Jalloud defenestrato più di vent’anni fa. Entrambe erano il nucleo centrale della Rivoluzione del 1969.

Se è vero che con la crisi finanziaria del 2008/2009 c’è stata una severa riduzione della torta da spartire nel patto tra le tribù, l’ipotesi che questo abbia coinciso con lo scontro interno al gruppo dirigente libico e determinato la guerra civile, appare estremamente plausibile. Sicuramente il fattore tribale non è affatto rimovibile da una seria analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” e in qualche modo offusca l’idea di una rivolta fatta solo di giovani con l’Ipod e il computer che aspirano alla democrazia e che “guardano all’Europa”.

Ma sulla composizione dei ribelli di Bengasi e del Consiglio Provvisorio di Transizione , una struttura che è stato riconosciuta ufficialmente dalla Francia e che alcuni pacifisti guerrafondai o bellicisti umanitari vorrebbero far riconoscere anche dal governo italiano, ci sono ancora alcune cose da dire e non certo per importanza.

Non può non colpire il fatto – non l’opinione – che tra i membri più influenti del Consiglio Provvisorio di Bengasi ci siano tanti esponenti del vecchio apparto del regime di Gheddafi.

Il presidente è l’ex ministro della giustizia libico Mustafà Abdel Jalil, bengasino come lo è l’ex ministro degli interni, il generale Abdul Fattah Younes passato con i ribelli alla fine di febbraio. Praticamente due che hanno condiviso con il regime la repressione e la “giustizia”…fino a febbraio.

L’ex generale ed ex ministro Abdul Fattah Younes “è stato già individuato dagli osservatori internazionali come possibile attore del futuro della Libia; il ministro degli esteri britannico William Hague ha già parlato a lungo al telefono con lui” (14)

Ma tra i ribelli ci sono anche l’ ex ambasciatore presso la Lega Araba Abdel Monehim Al Honi, l’ambasciatore presso l’ONU Abdullarhin Shalgam (tra l’altro ex ambasciatore in Italia per moltissimi anni), gli ambasciatori in Inghilterra, Francia (guarda un po’), Spagna, Germania, Grecia, Malta e l’attuale ambasciatore libico in Italia. A Bengasi ci sono poi i militari come il colonnello Hussein citato all’inizio del nostro articolo e tanti altri ex alti ufficiali delle forze armate libiche. Alcuni fonti confermano che Gheddafi nel tempo aveva trascurato le forze armate regolari a vantaggio delle forze di sicurezza personali inducendo malumori, gelosie ma soprattutto riduzioni di prebende tra le gerarchie militari. Su questo hanno indubbiamente lavorato nei mesi precedenti la “rivolta” i servizi segreti britannici, statunitensi, francesi ma anche quelli italiani. “Intuiamo dietro i ribelli un agitarsi dei servizi segreti occidentali, specie anglosassoni, ma non abbiamo un’idea del loro reale livello di coinvolgimento” scrive un importante esperto di Medio Oriente (15).

Ma in questi giorni stanno ormai emergendo con maggiore precisione queste “presenze sul campo”dei corpi speciali delle truppe britanniche al fianco dei ribelli di Bengasi già nei primissimi giorni della “rivolta” contro Gheddafi: “centinaia di militari delle Sas, uno dei corpi più elitari del pianeta, sarebbero infatti in azione al fianco dei ribelli da un mese, con il compito di distruggere i sistemi di lancio dei missili terra-aria del colonnello” scrive il corrispondente da Londra de La Stampa (16)

 

Perché “quelli di Bengasi” non possono essere i nostri interlocutori o alleati

E’ ormai evidente come nel Consiglio Provvisorio di Bengasi sia preponderante una parte dell’ex apparato di potere del regime libico e che, come afferma sardonicamente il colonnello Hussein alla giornalista del Time…”hanno completato la rivoluzione iniziata dai giovani”. I giovani o quelli ispirati a oneste istanze di democratizzazione e autodeterminazione del popolo libico, sono stati immediatamente emarginati e ridotti al silenzio, esattamente come le voci o i cartelloni a Bengasi che si dicevano contrari all’intervento straniero in Libia per regolare i conti con Gheddafi.

Al contrario, il settore ormai prevalente nel Consiglio Provvisorio non vuole una rivoluzione, vuole solo sostituire il potere di Gheddafi con il proprio ed ha trovato nelle potenze europee e negli Stati Uniti, ma anche in certi correnti di consenso “democratico” in occidente, la leva giusta per scalzare dal potere Gheddafi, sostituirlo e dare vita ad una nuova spartizione della ricchezza derivante dal gas e dal petrolio della Libia.

Per fare questo hanno approfittato della congiuntura favorevole derivata dalle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (queste sì possiamo ritenerle tali), hanno mandato avanti i giovani, hanno tentato un colpo di stato e di fronte al suo fallimento hanno scatenato una guerra civile, forti del fatto che quest’ultima aveva maggiore possibilità di “internazionalizzare” la crisi interna libica e favorire l’intervento di agenti esterni. Le bombe della Francia e della Gran Bretagna, i missili statunitensi che stanno piovendo sulla Libia confermano che questo è lo scenario possibile.

Se tolgono di mezzo Gheddafi il cerchio si chiude e lo “scenario A” può realizzarsi.

Se Gheddafi resiste è pronto lo “scenario B”, quello secessionista, che porterebbe la Cirenaica (dove ci sono la maggioranza dei pozzi petroliferi e del gas) nelle mani della camarilla che controlla il Consiglio Provvisorio di Bengasi e gli consentirebbe di trattare direttamente le multinazionali petrolifere di una Francia affamata di petrolio e gas a fronte della crisi del nucleare, di quelle di una Gran Bretagna danneggiate dall’incidente nel Golfo del Messico (la BP), di quelle statunitensi alla ricerca di un petrolio meno caro da estrarre come quello libico rispetto ad altri giacimenti petroliferi costosi come sono le piattaforme in mezzo al mare.

Il terzo scenario – la cosiddetta “Somalizzazione” – per ora viene esorcizzato da tutte le componenti, ma non possiamo negare che le vecchie potenze coloniali cominciano ormai ad agire come apprendisti stregoni seminando in giro più sangue e destabilizzazione che stabilità (vedi Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Medio Oriente).

 

No all’intervento militare contro la Libia… ma né Gheddafi né Bengasi!!

Vogliamo dirlo chiaro e tondo. Non abbiamo motivo di particolare simpatia per Gheddafi. Ha avuto un suo passato anticolonialista, ha subìto i bombardamenti USA nel 1981 e nel 1986 e gli attacchi militari francesi per le sue iniziative antiegemoniche e anticolonialiste contro gli Stati Uniti e la Francia, ma ha fatto anche volontariamente tutte le scelte che lo hanno riportato nella trappola dell’occidente. Ha firmato trattati bilaterali vergognosi con l’Italia e l’Unione Europea ed ha riportato gli interessi del proprio popolo e dell’economia della Libia dentro gli interessi strategici dei vari competitori imperialisti. Sulla sua sorte possiamo solo augurargli di non finire come Ben Alì e Mubarak fuggiti all’estero e di resistere o morire con dignità nel proprio paese.

Ma vogliamo dire anche chiaro e tondo che nessuno venga a proporre di sostenere o riconoscere “quelli di Bengasi”. Per moltissimi aspetti sono peggiori di Gheddafi. Non sono affatto “il popolo libico in rivolta”, sono solo un gruppo di potere in lotta contro il vecchio apparato di potere.

Il popolo libico, messo alle strette dalla realtà è stato costretto a schierarsi una parte con Gheddafi e una parte con quelli di Bengasi. Le sue legittime aspirazioni alla democratizzazione e alla redistribuzione della ricchezza derivante dalle risorse del paese, al momento non trovano spazio nella polarizzazione seguita alla guerra civile né, tantomeno, nelle priorità degli interessi strategici delle potenze occidentali impegnate nell’intervento militare in Libia.

Per questo abbiamo affermato che quella in Libia non era una rivolta popolare, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, ma era una guerra civile via via resa sempre più funzionale agli interessi strategici delle multinazionali europee e statunitensi. Interessi che possono coincidere o divaricarsi rapidamente dentro il Grande Gioco della competizione globale sulle risorse energetiche oggi in una fase resa acutissima dalla crisi internazionale.

 

Quella in Libia è una vera guerra per il petrolio. Rivelatrice e piena di incognite

Emblematico di questa realtà della competizione ormai a tutto campo sul piano energetico, è ad esempio il ruolo giocato dentro la Lega Araba e contro la Libia dalle petromomarchie arabe del Golfo riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Da un lato hanno ottenuto con questa collaborazione all’attacco militare che nessun membro della “comunità internazionale” mettesse becco sulla repressione contro le rivolte popolari in Yemen e Barhein (dove c’è stato addirittura l’intervento militare diretto dell’Arabia saudita nella repressione). Emblematico anche il ruolo dell’emirato del Qatar – azionista di riferimento della televisione satellitare Al Jazeera – che non solo ha inviato quattro aerei da combattimento a bombardare la Libia, ma che stavolta ha affiancato l’altra emittente satellitare Al Arabija (sotto controllo saudita) nel lavoro di manipolazione informativa e di legittimazione dell’attacco militare in Libia.

Dall’altro le petromonarchie arabe del Golfo hanno svolto il ruolo di garanzia sia alle forniture petrolifere per i paesi europei di fronte al buco apertosi con l’interruzione delle forniture libiche, sia di garanzia affinchè le transazioni petrolifere continuassero ad essere pagate in dollari (un enorme assist per l’economia USA alle prese con un debito pubblico stellare), sbarrando così la strada all’ipotesi che qui e là veniva emergendo, di pagamento in euro e yuan cinese nelle transazioni petrolifere da parte di diversi paesi petroliferi come l’Iran, il Venezuela, la Libia, la Russia e … la Libia, una sorta di nuova Opec diversa e separata da quella sotto stretto controllo saudita.

E’ evidente come la stessa crisi del nucleare esplosa insieme alla centrale atomica di Fukushima in Giappone, espone alcune potenze come la Francia a tutta la vulnerabilità di un sistema energetico fondato proprio sul nucleare. La fretta e l’oltranzismo di Sarkozy nello scatenare la guerra sulla Libia non è solo per recuperare l’immagine offuscata dalla vicenda Tunisia o un riequilibrio sul piano militare verso la Germania dominante sul piano economico nella gerarchia dell’Unione Europea (in questo agisce il solito gioco di sponda con la Gran Bretagna), ma è anche il diktat delle multinazionali del petrolio e del gas francesi al loro governo per assicurarsi almeno una parte dei molto vicini giacimenti libici e delle multinazionali del nucleare affinchè – a fronte di una impennata dei prezzi petroliferi dovuti alla guerra in Libia – l’opzione nucleare francese continui a rimanere ben presente sul terreno nonostante lo stop all’atomo che sta crescendo dopo la catastrofe nucleare in Giappone.

L’intervento militare delle potenze della NATO nel conflitto, a sostegno di una fazione (quella di Bengasi) contro l’altra fazione (quella di Gheddafi), conferma la validità della tesi della guerra civile e non di una rivolta popolare in Libia. Ma questa per noi non può essere una consolazione. E’piuttosto la consapevolezza della drammaticità della crisi globale dell’economia capitalista e della brusca ridefinizione dei rapporti di forza internazionali, cioè di quel piano inclinato del capitale che indicammo chiaramente all’inizio di questo decennio e che sembra portare la civiltà del capitalismo verso un baratro dove sta trascinando l’intera umanità.

O da questa crisi di civiltà del capitalismo o sapremo far emergere una nuova opportunità per le forze “rivoluzionarie” in grado di invertire la tendenza oppure, come diceva il vecchio Marx, rischia di concludersi “con la fine di tutte le classi in lotta”.

 

Note:

(1) Corrispondenza di Abigail Hauseloner sul “Time” del 26 febbraio 2011

(2) “Così è nata la rivoluzione. Per i soldi non per l’islam”, La Stampa del 2 marzo 2011

(3) Abd Al Bari Atwan. “Attenti al Chalabi libico” su Al Quds Al Arabi del 2 marzo 2011

(4) L’emirato libico e il letargo dell’Europa. In www.medarabnews.com febbraio 2011

(5) “Crisi libica e impatto energetico con l’Italia” in Affari Internazionali del 25 febbraio 2011. Affari Internazionali è una pubblicazione web dell’Istituto Affari Internazionali, un think thank italiano strettamente legato agli ambienti NATO e filo-atlantici.

(6) www.imf.org/external/mp/sec/pn/2011

(7) “E se il rais resta al potere? Tre scenario per l’Occidente”, Corriere della Sera, 4 marzo 2011

(8) Analisi redazionale di Medarabnews. com del 16 marzo 2011-03-20

(9) Al Ahram weekly del 16 marzo 2011

10) “Nord Africa, rivoluzione o Gattopardo?”; Stefano Silvestri su Affari Internazionali del 14 /2/2011

11) “Libia è il momento di interferire”, Roberto Aliboni su Affari Internazionali del 24 marzo

12) Analisi redazionale di Medarabnews.com del 25 febbraio 2011

13) Intervista a Frank Anderson, su La Stampa del 9 marzo 2011

14) Il Foglio del 5 marzo 2011

(15) Giuseppe Cucchi, coordinatore dell’area di politica e sicurezza internazionale di Nomisma. “Tre scenari per la Libia” Pubblicato in Affari Internazionali del 5 marzo 2011.

(16)”I Sas di Sua Maestà a fianco dei ribelli”, su La Stampa del 21 marzo 2011

Tratto da: http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_conten....


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

 

 

 

 

mardi, 22 mars 2011

The Rivkin Project: How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations

Charles%20Rivkin.jpg

The Rivkin Project:

How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 1

Kerry BOLTON

Ex: http://counter-currents.com/

During October 19–22, 2010, Charles Rivkin, US Ambassador to France, invited a 29-member delegation from the Pacific Council on International Policy (PCIP) to a conference in France, the main purpose of which was to discuss Arab and Islamic relations in the country.[1] The meeting was part of a far-reaching subversive agenda to transform that entire character of France and in particular the consciousness of French youth, which includes the use of France’s Muslim youth in a typically manipulative globalist strategy behind the usual façade of “human rights” and “equality.”

Globalist Delegation at US Embassy

The PCIP report states of the conference:

. . . The delegation further focused on three key themes. First, the group examined Franco-Muslim issues in France through exchanges with Dr. Bassma Kodmani, Director of the Arab Reform Institute, and Ms. Rachida Dati, the first female French cabinet member of North African origin and current Mayor of the 7th Arrondissement in Paris. A trip to the Grand Mosque of Paris and a meeting with the Director of Theology and the Rector there provided additional insight. Second, meetings with Mr. Jean-Noel Poirier, the Vice President of External Affairs at AREVA (a highly innovative French energy company), and with Mr. Brice Lalonde, climate negotiator and former Minister of the Environment, highlighted energy and nuclear policy issues and the differences between U.S. and French policies in these arenas. And finally, the delegation explored the connections between media and culture in California (Hollywood) and France in meetings at the Louvre, the Musee D’Orsay, and at FRANCE 24 — the Paris-based international news and current affairs channel.[2]

The over-riding concern seems to have been on matters of a multicultural dimension, including not only Arab and Islamic relations in France, but perhaps more importantly in the long term, a discussion on the impact of Hollywood “culture” on the French.

The USA has long played a duplicitous game of “fighting terrorism” of an “Islamic” nature as one of the primary elements of its post-Cold War stratagem of manufactured permanent crises, while using “radical Islam” for it own purposes, the well-known examples being: (1) Supporting Bin Ladin in the war against Russia in Afghanistan, (2) backing Saddam Hussein in the war against Iran, (3) supporting the Kosovo Liberation Army in ousting Serbian sovereignty over mineral rich Kosovo, the KLA having been miraculously transformed from being listed by the US State Department as a “terrorist organization,” to becoming “freedom fighters.”

When US globalists pose as friends of Muslims, the latter should sup with the Great Shaitan with an exceedingly long spoon.

What is the Pacific Council on International Policy?

The PCIP of which Rivkin is a member was founded in 1995 as a regional appendage of the omnipresent globalist think tank, the Council on Foreign Reactions (CFR),[3] is headquartered in Los Angeles, but “with members and activities throughout the West Coast of the United States and internationally.” Corporate funding comes from, among others:

Carnegie Corporation of New York
Chicago Council on Foreign Relations
City National Bank
The Ford Foundation
Bill and Melinda Gates Foundation
The William & Flora Hewlett Foundation
Rockefeller Brothers Fund
The Rockefeller Foundation
United States Institute of Peace[4]

The PCIP is therefore yet another big player in the globalist network comprising hundreds of usually interconnected organizations, lobbies, “civil society” groups, NGOs, and think tanks, associated with banks and other corporations. As usual, there is a conspicuous presence by Rockefeller interests.

Why France?

France has long been a thorn in the side of US globalism because of its stubborn adherence to French interests around the world, rather than those of the manufactured “world community,” although the Sarkozy regime is an exception. However, France is one of the few states left in Western Europe with a strong national consciousness. The best way of destroying any such feeling — which translates too often into policy — is to weaken the concepts of nationhood and nationality by means of promoting “multiculturalism.”

Was it only coincidence that the 1968 student revolt, sparked by the most puerile of reasons, occurred at a time both when the CIA was very active in funding student groups around the world, and when President De Gaulle was giving the USA maximum trouble in terms of foreign policy? De Gaulle did little to play along with American’s post-war plans. He withdrew France form NATO command, during in World War II was distrusted by the USA.[5]

Of particular concern would have been De Gaulle’s advocacy of a united Europe to counteract US hegemony.[6] In 1959 he stated at Strasbourg: “Yes, it is Europe, from the Atlantic to the Urals, it is the whole of Europe, that will decide the destiny of the world.” The expression implied co-operation between a future Europe and the USSR. In 1967 he declared an arms embargo on Israel and cultivated the Arab world. This is the type of legacy that globalists fear.

With the buffoonery of Sarkozy, and mounting tension with disaffected Muslim youth, a backlash could see an intransigently anti-globalist, “xenophobic” regime come to power. In today’s context, what better way now to subvert French nationalism and any potential to revive as an anti-globalist force, than to use its large, unassimilated Islamic component, just as the Bolshevik revolution was undertaken to a significant extent by the disaffected minorities of the Russian Empire?

Of interest also is the concern this delegation had for the influence of Hollywood on French culture. This might seem at first glance to be an odd concern. However, Hollywood, as the economic symbol of globalist cultural excrescence, is an important factor in globalization, in what amounts to a world culture-war. Ultimately the goal of globalism is not to promote the survival of ethnic cultures and identities, but rather to submerge them into one big melting pot of global consumerism, to uproot every individual from an identity and heritage and replace that with the global shopping mall, and the “global village.” Therefore multiculturalism should be viewed as the antithesis of what it is understood as being.

So far from the global corporates wanting to promote so-called multiculturalism in terms of assuring the existence of a multiplicity of cultures, as the term implies; it is to the contrary part of a dialectical process whereby a under the facade of ideals, peoples of vastly different heritage are moved across the world like pawns on a chess board, the aim being to break down culturally specific nations. It is an example of Orwellian “doublethink.”[7]

It is notable that the instigators of the “velvet revolutions” now sweeping North Africa and reaching into Iran are largely “secularized” youths without strong traditionalist roots. Similarly, the best way to solve France’s ethnic conflicts and to assure that France does not re-emerge again to confront US/globalist interests, is to dialectically create a new cultural synthesis where there is neither a French culture nor an Islamic culture, but under the banner of “human rights” and “equality,” a globalist youth-based culture nurtured by Hollywood, MTV, cyberspace, MacDonald’s and Pepsi.

That this is more than hypothesis is indicated by the manner by which the secular youth revolts now taking place in North Africa have been spawned by an alliance of corporate interests, sponsored by the US State department and sundry NGOs such as Freedom House.[8] The North African “revolutionaries” toppling regimes are just the type of “Muslim” that the globalists prefer; imbued with the cyber-consumer mentality.

So what are Rivkin and the US State Department up to in France, that they should be so interested in the place of Hollywood and of Muslims in the country?

Notes

1. “2010 France Country Dialogue,” PCIP,  http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=583

2. “2010 France Country Dialogue,” ibid.

3. “Founded in 1995 in partnership with the Council on Foreign Relations,” PCIP, Governance, http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=373

4. Corporate and Foundation funding: http://www.pacificcouncil.org/page.aspx?pid=513

5. S. Berthon, Allies At War (London: Collins, 2001), p. 21.

6. A. Crawley, De Gaulle (London: The Literary Guild, 1969), p. 439.

7. “The power of holding two contradictory beliefs in one’s mind simultaneously, and accepting both of them . . .” George Orwell, Nineteen Eighty-Four (London: Martin Secker and Warburg, 1949), Part 1, Ch. 3, p. 32.

8. K. R. Bolton, “Twitters of the World Unite! The Digital New-New Left as Controlled Opposition,” Part 1, Part 2, Part 3, and Part 4. Tony Cartalucci, “Google’s Revolution Factory – Alliance of Youth Movements: Color Revolution 2.0,” Global Research, February 23, 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=23283

The Rivkin Project:
How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 2

In 2010 when US ambassador Charles Rivkin invited a delegation of fellow Pacific Council on International Policy members to France, he had outlined a program for the Americanization of France that primarily involved the use of the Muslim minorities and the indoctrination of French youth with corporate globalist ideals. The slogan invoked was the common commitment of France and America historically to “equality.”

Wikileaks released the “confidential” program. It is entitled “Minority Engagement Strategy.”[1] Here Rivkin outlines a program that is a flagrant interference in the domestic affairs of a sovereign nation and, more profoundly, seeks to change the attitudes of generations of Muslim and French youth so that they merge into a new globalist synthesis; or what might be called a new humanity: Homo economicus, or what the financial analyst G. Pascal Zachary calls “The Global Me,”[2] to achieve what Rivkin describes as the USA’s “national interest.”

Rivkin begins by stating that his embassy has created a “Minority Engagement Strategy” that is directed primarily at Muslims in France. Rivikin states as part of the program: “We will also integrate the efforts of various Embassy sections, target influential leaders among our primary audiences, and evaluate both tangible and intangible indicators of the success of our strategy.”[3]

Rivkin is confident that France’s history of ideological liberalism “will serve us well as we implement the strategy outlined here . . . in which we press France . . .” Note the phrase: “press France.” America’s global agenda is linked by Rivkin to his blueprint for transforming France into “a  thriving, inclusive French polity [which] will help advance our interests in expanding democracy and increasing stability worldwide.” The program will focus on the “elites” of the French and the Muslim communities, but will also involve a massive propaganda campaign directed at the “general population,” with a focus on youth.

At high levels US officials will place French officials on the defensive. The program also includes redefining French history in the school curricula to give attention to the role of non-French minorities in French history. It means that the Pepsi/MTV generation of Americans will be formulating new definitions of French culture and writing new pages of French history to accord with globalist agendas. Towards this end: “. . . we will continue and intensify our work with French museums and educators to reform the history curriculum taught in French schools.”

“Tactic Number Three” is entitled: “Launch Aggressive Youth Outreach.” As in other states targeted by the US State Department and their allies at the Soros network, Freedom House, Movement.org, National Endowment for Democracy, Solidarity Center,[4] and so forth; disaffected youth are the focus for change. Leading the charge on this effort, the Ambassador’s inter-agency Youth Outreach Initiative aims to “engender a positive dynamic among French youth that leads to greater support for US objectives and values.” Can the intentions be stated any plainer? It is Americanization culturally and politically.

It is here that we can most easily get past the cant and clearly see what is behind the strategy: to form a generation “that leads to greater support for US objectives and values.” These “US objectives and values” will be sold to the French as French values on the basis of the bourgeois ideals of 1789 which continue to encumber French ideology on both Left and Right. They will be taught to think that they are upholding French traditions, rather than acting as agents of change according to “American values”: the values of the global village and the global shopping mall. A far-reaching program incorporating a variety of indoctrination methods is outlined:

To achieve these aims, we will build on the expansive Public Diplomacy programs already in place at post, and develop creative, additional means to influence the youth of France, employing new media, corporate partnerships, nationwide competitions, targeted outreach events, especially invited US guests.[5]

The program directed at youth in France is similar to that directed at the youth that formed the vanguard of the “velvet revolutions” from Eastern Europe to North Africa. Potential leaders are going to be taken up by the US State Department in France and cultivated to play a part in the future France of American design:

We will also develop new tools to identify, learn from, and influence future French leaders.

As we expand training and exchange opportunities for the youth of France, we will continue to make absolutely certain that the exchanges we support are inclusive.

We will build on existing youth networks in France, and create new ones in cyberspace, connecting France’s future leaders to each other in a forum whose values we help to shape — values of inclusion, mutual respect, and open dialogue.[6]

Here Rivkin is advocated something beyond influencing Muslims in France. He is stating that a significant part of the program will be directed towards cultivating French youth, the potential leaders, in American ideals, under the façade of French ideals. The US State Department and their corporate allies and allied NGOs intend to “shape their values.” The globalist program for France is stated clearly enough to be the re-education of French youth. One would think that this is the most important role of the French Government, the Catholic Church and the family; the latter two in particular. American bureaucrats and their inane sidekicks recruited from professions are to formulate new “French values.”

As in the states that are chosen for “velvet revolutions” part of the strategy includes demarcating the political confines. As Hillary Clinton recently stated in regard to the type of state the US Establishment expects to emerge after Qadaffi, the new Libya should be an inclusive democracy, open to all opinions, as long as those opinions include a commitment to “equality” and “democracy”; in other words, there must be a new dispensation of freedom in Libya, so long as that freedom does not extend beyond America’s definition of it. And if someone oversteps the lines of acceptable democracy, American bombers are on standby. In the context of France, however, it is clear that the demarcation of French politics according to globalist dictates cannot include any elements of so-ccalled “xenophobia” (sic), which in today’s context would include a return to the grand politics of the De Gaulle era. Hence, “Tactic 5” states:

Fifth, we will continue our project of sharing best practices with young leaders in all fields, including young political leaders of all moderate parties so that they have the toolkits and mentoring to move ahead. We will create or support training and exchange programs that teach the enduring value of broad inclusion to schools, civil society groups, bloggers, political advisors, and local politicians.[7]

Rivkin is outlining a program to train France’s future political and civic leaders. While the programs of US Government-backed NGOs, such as the National Endowment for Democracy — ostensibly designed to develop entire programs and strategies for political parties in “emerging democracies,” such as the states of the ex-Soviet bloc — can be rationalized by way of a lack of a heritage of liberal-democratic party politics, the same rationale can hardly be used to justify America’s interference in France’s party politics.

Towards this end Rivkin states that the 1,000 American English language teachers employed at French schools will be provided with the propaganda materials necessary to inculcate the desired ideals into their French pupils: “We will also provide tools for teaching tolerance to the network of over 1,000 American university students who teach English in French schools every year.”

The wide-ranging program will be co-ordinated by the “Minority Working Group” in “tandem” with the “Youth Outreach Initiative.” One of the problems monitored by the Group will be the “decrease in popular support for xenophobic political parties and platforms.” This is to ensure that the program is working as it should to block the success of any “extreme” or “xenophobic” party that might challenge globalization.

Rivkin clarifies the subversive nature of the program when stating: “While we could never claim credit for these positive developments, we will focus our efforts in carrying out activities, described above, that prod, urge, and stimulate movement in the right direction.”

What would the reaction be if the French Government through its Embassy in Washington undertook a program to radically change the USA in accordance with “French national interests,” inculcating through an “aggressive outreach program” focusing on youth, “French ideals” under the guise of “American ideals on human rights.” What would be the response of the US Administration if it was found that the French Government were trying to influence the attitudes also of Afro-Americans, American-Indians, and Latinos? What would be the official US reaction if it was found that French language educators in American schools and colleges were trying to inculcate American pupils with ideas in the service of French interests?

The hypothetical reaction can be deduced from the US response to the “Soviet conspiracy” when Senate and Congressional committees were set up to investigate anyone even vaguely associated with the USSR. So what’s different? The USA perpetrates a subversive strategy in the interests of it globalist cooperate elite, instead of in the interests of the USSR or communism. It is not as though the USA has had much of a cultural heritage that it can present itself to any European nation, let alone France, as the paragon of good taste and artistic refinement upon which a national identity can be constructed. It this matter, it is a case of deconstruction.

Notes

1. C. Rivkin, “Minority Engagement Report,” US Embassy, Paris, http://www.wikileaks.fi/cable/2010/01/10PARIS58.html

2. G. Pascal Zachary, The Global Me: Why Nations will succeed or Fail in the Next Generation (New South Wales, Australia: Allen and Unwin, 2000).

3. Rivkin.

4. K. R. Bolton, “The Globalist Web of Subversion,” Foreign Policy Journal, February 7, 2011, http://www.foreignpolicyjournal.com/2011/02/07/the-globalist-web-of-subversion/

5. Rivkin.

6. Rivkin.

7. Rivkin.

The Rivkin Project:
How Globalism Uses Multiculturalism to Subvert Sovereign Nations, Part 3

Many nefarious aims have been imposed under the banner of multiculturalism and slogans such as “equality” and “human rights.” As “democracy” has been used to justify the bombing states throughout recent history, these slogans often serve as rhetoric to beguile the well-intentioned while hiding the aims of those motivated by little if anything other than power and greed.

One might think of the manner by which the issue of the Uitlanders was agitated to justify the Anglo-Boer wars for the purpose of procuring the mineral wealth of South Africa for the benefit of Cecil Rhodes, Alfred Beit, et al.

A similar issue was revived in our own time, under the name of “fighting apartheid,” and while the world was jubilant at the assumption to power of the ANC, the reality has been that the Africans have not benefited materially one iota, but the parastatals or state owned enterprises are being privatized so that they can be sold off to global capitalism. When the patriarch of South African capitalism, Harry Oppenheimer, whose family was a traditional foe of the Afrikaners, died in 2000,Nelson Mandela eulogized him thus:  “His contribution to building partnership between big business and the new democratic government in that first period of democratic rule can never be appreciated too much.”[1]

The “democracy” Oppenheimer and other plutocrats in tandem with the ANC created in South Africa is the freedom for global capital to exploit the country. Mandela stated the result of this “long march to freedom” in 1996: “Privatization is the fundamental policy of the ANC and will remain so.”[2] In commenting on the privatization of the Johannesburg municipal water supply, which is now under the French corporation Suez Lyonnaise Eaux, the ANC issued a statements declaring that: “Eskom is one of a host of government owned ‘parastatals’ created during the apartheid era which the democratically elected government has set out to privatise in a bid to raise money.”[3] It is the same outcome for South Africa that was achieved by the “liberation” of Kosovan minerals in the name of “democracy” and in the name of the rights of Muslims under Serb rule, while other Muslims under their own rule are bombed into submission by the USA and its allies.

The Aims of Global Capitalism

The nature of the globalist dialectic has been explained particularly cogently by Noam Chomsky:

See, capitalism is not fundamentally racist — it can exploit racism for its purposes, but racism isn’t built into it. Capitalism basically wants people to be interchangeable cogs, and differences among them, such as on the basis of race, usually are not functional. I mean, they may be functional for a period, like if you want a super exploited workforce or something, but those situations are kind of anomalous. Over the long term, you can expect capitalism to be anti-racist — just because it’s anti-human. And race is in fact a human characteristic — there’s no reason why it should be a negative characteristic, but it is a human characteristic. So therefore identifications based on race interfere with the basic ideal that people should be available just as consumers and producers, interchangeable cogs who will purchase all the junk that’s produced — that’s their ultimate function, and any other properties they might have are kind of irrelevant, and usually a nuisance.[4]

The Chomsky statement cogently expresses the situation in its entirety.

France as a Social Laboratory for Globalization

The Rivkin offensive is the latest in a long line of programs for undermining French identity. France is a paradox, combining the cosmopolitan values of the bourgeois Revolution of 1789 with a stubborn traditionalism and nationalism, which the globalists term “xenophobia.” It is manifested even in small ways such as the legal obligation of French public servants and politicians to speak only French to the foreign media, regardless of their knowledge of any other language; or the widespread resistance in France to McDonalds and Disney World.

France, like much of the rest of the world, however, is fighting a losing cultural battle against globalization. Jeff Steiner’s column “Americans in France,” refers to the manner by which the French at one time resisted the opening of the American fast food franchise as “part of an American cultural invasion.” Steiner writes:

. . . That seems to be past as McDonalds has so become a part of French culture that it’s not seen as an American import any longer, but wholly French. In short, McDonalds has grown on the French just like in so many other countries.

I’ve been to a few McDonalds in France and, except for one in Strasbourg that looks from the outside to be built in the traditional Alsatian style, all McDonalds in France that I have seen look no different than their American counterparts.

Yes, there are those that still curse McDo (They are now a very small group and mostly ignored) as the symbol of the Americanization of France and who also see it as France losing its uniqueness in terms of cuisine. The menu in a French McDonalds is almost an exact copy of what you would find in any McDonalds in the United States. It struck me as a bit odd that I could order as I would in the United States, that is in English, with the odd French preposition thrown in.

If truth were told, the French who eat at McDonalds are just as much at home there as any American could be.[5]

This seemingly trivial example is actually of immense importance in showing just how a culture as strong as that of France — until recently an immensely proud nation — can succumb, especially under the impress of marketing towards youngsters. It is a case study par excellence of the standardization that American corporate culture entails. It is what the globalist elite desires on a world scale, right down to what one eats.

It is notable that the vanguard of resistance to McDonalds came from farmers, a traditionalist segment of Europe’s population that is becoming increasingly anomalous and under the globalist regime will become an extinct species as agriculture gives way to agribusiness.

Given France’s status in Europe and its historical tendency to maintain its sovereignty in the face of US interests — even quite recently with its opposition to the war against Iraq — France remains one globalism’s few stumbling blocks in Europe. An added concern is that the French will take their stubborn “xenophobia” to the polls and elect a stridently anti-globalist party, as reflected in the electoral ups and downs of the Front National, which opposes both globalization and privatization.

This is a major reason for Rivkin’s far-reaching subversive and interventionist program to assimilate Muslims into French society, which would fundamentally transform French consciousness to be more thoroughly cosmopolitan. The intention is clear enough in the Rivkin embassy documents where it is stated that the Embassy will monitor the effects of the “outreach” program on the “decrease in popular support for xenophobic political parties and platforms.”

Contra the “xenophobia” of France, R. J. Barnet and R. E. Müller’s study of the global corporation, Global Reach,[6] based on interviews with corporate executives, shows that the French business elite has long been seeking to undermine the foundations of French tradition. Jacques Maisonrouge, president of the IBM World Trade Corporation “likes to point out that ‘Down with borders,’ a revolutionary student slogan of the 1968 Paris university uprising – in which some of his children were involved – is also a welcome slogan at IBM.”[7] Maisonrouge stated that the “World Managers” (as Barnett and Muller call the corporate executives) believe they are making the world “smaller and more homogeneous.”[8] Maisonrouge approvingly described the global corporate executive as “the detribalized, international career men.”[9] It is this “detribalization” that is the basis of a “world consumer culture” required to more efficiently create a world economy.

Paris is already a cosmopolitan center and therefore ideal as a prototype for the “global city” of the future. In the 1970s Howard Perlmutter and Hasan Ozekhan of the Wharton School of Finance Worldwide Institutions Program prepared a plan for a “global city.” Paris was chosen for the purpose. Prof. Perlmutter was a consultant to global corporations. His plan was commissioned by the French Government planning agency. Perlmutter predicted that cities would become “global cities” during the 1980s.

For Paris, this required “becoming less French” and undergoing “denationalization.” This, he said, requires a “psycho-cultural change of image with respect to the traditional impression of ‘xenophobia’ that the French seem to exude.” The parallels with the current Rivkin program are apparent. Perlmutter suggested that the best way of ridding France of its nationalism was to introduce multiculturalism. He advocated “the globalization of cultural events” such as international rock festivals, as an antidote to “overly national and sometimes nationalistic culture.”[10]

Undermining France’s “overly national and sometimes nationalistic culture” is the reason Rivkin sought to foster stronger connections between Hollywood and the French culture industry.[11] Rivkin knows the value of entertainment in transforming attitudes, especially among the young. After working as a corporate finance analyst at Salomon Brothers, Rivkin joined The Jim Henson Company in 1988 as director of strategic planning. Two years later, he was made vice president of the company.

The Jim Henson Company produces Sesame Street, whose cute little muppets push a well-calculated globalist agenda to toddlers. Lawrence Balter, professor of applied psychology at New York University, wrote that Sesame Street “introduced children to a broad range of ideas, information, and experiences about diverse topics such as death, cultural pride, race relations, people with disabilities, marriage, pregnancy, and even space exploration.” The series was the first to employ educational researchers, with the formation of a Research Department.[12] Sesame Street has received funding from the Ford Foundation, the Carnegie Corporation, and the US Office of Education. Of passing interest is that the Carnegie Corporation and the Ford Foundation are also patrons of the Pacific Council on International Policy.

Creating the World Consumer

As Chomsky has pointed out, global capitalism sees humanity in terms of interchangeable cogs in the production and consumption cycle. The summit of corporate human evolution is transformation into “detribalized, international career men.” According to financial journalist G. Pascal Zachary, these rootless cosmopolitans constitute an “informal global aristocracy” recruited all over the world by corporations, depending totally on their companies and “little upon the larger public,” a new class unhindered by national, cultural, or ethnic bonds.[13]

Barnett and Muller quoted Pfizer’s John J. Powers as stating that global corporations are “agents for change, socially, economically and culturally.”[14] They stated that global executives see “irrational nationalism” as inhibiting “the free flow of finance capital, technology, and goods on a global scale.” A crucial aspect of nationalism is “differences in psychological and cultural attitudes, that complicate the task of homogenizing the earth into an integrated unit. . . . Cultural nationalism is also a serious problem because it threatens the concept of the Global Shopping Center.”[15]

This “cultural nationalism” is described by Rivkin and all other partisans of globalism as “xenophobia,” unless that “xenophobia” can be marshaled in the service of a military adventure when bribes, embargoes and threats don’t bring a reticent state into line, as in the cases of Serbia, Iraq, and perhaps soon, Libya. Then the American globalist elite and their allies become “patriots.”

Barnet and Muller cite A. W. Clausen when he headed the Bank of America, as stating that national, cultural, and racial differences create “marketing problems,” lamenting that there is “no such thing as a uniform, global market.”[16] Harry Heltzer, Chief Executive Officer of 3M stated that global corporations are a “powerful voice for world peace because their allegiance is not to any nation, tongue, race, or creed but to one of the finer aspirations of mankind, that the people of the world may be united in common economic purpose.”[17]

These “finer aspirations of mankind,” known in other quarters as greed, avarice, and Mammon-worship, have despoiled the earth, caused global economic imbalance, and operate on usury that was in better times regarded as a sin. These “finer aspirations,” by corporate reckoning, have caused more wars than any “xenophobic” dictator, usually in the name of “world peace,” and “democracy.”

The Rivkin doctrine for France — which according to the leaked document, must be carried out in a subtle manner — is a far-reaching subversive program to transform especially the young into global clones devoid of cultural identity, while proceeding, in the manner of Orwellian “doublethink,” under the name of “multiculturalism.”

Notes

1. “Mandela honours ‘monumental’ Oppenheimer”, The Star, South Africa, August 21, 2000, http://www.iol.co.za/index.php?set_id=1&click_id=13&art_id=ct20000821001004683O150279 (accessed September 27, 2009).

2. Lynda Loxton, “Mandela: We are going to privatise,” The Saturday Star, May 25, 1996, p.1.

3. ANC daily news briefing, June 27, 2001. See also “Eskom,” ANC Daily News Briefing, June 20, 2001, 70.84.171.10/~etools/newsbrief/2001/news0621.txt

4. Noam Chomsky, Understanding Power: The Indispensable Chomsky (New York: The New York Press, 2002), pp. 88–89.

5. J. Steiner, “American in France: Culture: McDonalds in France, http://www.americansinfrance.net/culture/mcdonalds_in_france.cfm

6. R. J. Barnet and R. E. Müller, Global Reach: The Power of the Multinational Corporations (New York: Simon and Schuster, 1974).

7. Global Reach, p. 19. For an update on Maisonrouge see: IBM, http://www-03.ibm.com/ibm/history/exhibits/builders/builders_maisonrouge.html

8. Global Reach, , p. 62.

9. Global Reach, ibid.

10. Global Reach, pp. 113–14.

11. “2010 France Country Dialogue,” PCIP, op. cit.

12. L. Balter, Parenthood in America: An Encyclopaedia, Vol. 1 (ABC-CLIO, 2000), p. 556.

13. G. Pascal Zachary, The Global Me (New South Wales: Allen & Unwin, 2000).

14. Global Reach, p. 31.

15. Global Reach, p. 58.

16. Global Reach, ibid.

17. Global Reach, p. 106.

lundi, 21 mars 2011

Bomben im Namen der Humanität

Libya_Bombing_14MAR11.jpg

Bomben im Namen der Humanität

Michael Wiesberg

Aus: http://www.jungefreiheit.de/

Seit dem Wochenende bombt nun eine neuerliche „Koalition der Willigen“; vorgeblich um in Libyen im Namen der Menschlichkeit eine Flugverbotszone durchzusetzen („Operation Odyssey Dawn“). Das geschieht just in dem Moment, in dem sich die Waagschale zugunsten Gaddafis zu neigen begann, der mit seinen Truppen bereits vor der Rebellenhochburg Bengasi stand, dem Ausgangspunkt der Revolte.

Damit steht die konkrete Gefahr im Raum, daß der zum „Menschheitsfeind“ hochgeschriebene Gaddafi an der Macht bleiben könnte. Die Prognose in meinem letzten Blog, nämlich daß sich der Westen in eine Lage manövriert hat, die nur noch eine militärische Intervention zuläßt, wenn Gaddafis politisches Überleben droht, hat sich damit bereits einige Tage später als zutreffend erwiesen.

Umfassende militärische Intervention

Den Luftschlägen vorausgegangen war in der Nacht vom Donnerstag zum Freitag eine Resolution im UN-Sicherheitsrat, die vornehmlich von Frankreich, den USA und Großbritannien – Staaten also, die noch vor ein paar Monaten um die Gunst des Gaddafi-Clans gebuhlt haben – betrieben wurde.

Diese Resolution, die mit zehn Ja-Stimmen bei fünf Enthaltungen, darunter auch Deutschland, angenommen wurde, sieht indes nicht nur die Durchsetzung einer Flugverbotszone vor; sie eröffnet überdies die Möglichkeit einer umfassenden militärischen Intervention, wenn in ihr die Rede davon ist, daß „alle notwendige militärische Gewalt“ einzusetzen sei, „um Zivilisten und von Zivilisten bewohnte Gebiete vor Angriffen zu schützen“. Wann das der Fall ist, darüber entscheiden die Gutmenschen der „Koalition der Willigen“.

Die deutsche Stimmenthaltung

Daß sich Deutschland vor diesem Hintergrund der Stimme erhalten hat, ist aufgrund der weitgehenden Implikationen dieser Intervention nachvollziehbar. Entsprechend erklärte der deutsche UN-Botschafter Peter Witte, daß die Anwendung militärischer Gewalt „die Wahrscheinlichkeit von hohen Verlusten an Menschenleben“ erhöhe. Nicht ausgeschlossen werden kann weiter, daß es irgendwann doch zum Einsatz von Bodentruppen kommen wird, um das apostrophierte Ziel zu erreichen, nämlich Gaddafi aus dem Amt zu treiben.

Dessenungeachtet nahm unter anderem der sattsam bekannte Transatlantiker Richard Herzinger, der hier pars pro toto aus der Schar humanitärer Bellizisten herausgehoben sei, die deutsche Stimmenthaltung zum Anlaß für einen Angriff auf Bundesaußenminister Westerwelle, der angeblich „unser Land blamiert“ habe.

Keinerlei „belastbare Informationen“

Deutschland habe sich, so Herzinger, in eine Reihe „mit Rußland und China gestellt“, die er als „notorische Blockierer“  abqualifiziert. Es zeigten sich unter Westerwelle „Symptome einer Regression in die nationalpazifistische Borniertheit“. Herzinger ist indes nicht präzise genug: Deutschland hat sich, um es genau zu sagen, in eine Reihe mit den BRIC-Staaten gestellt, die gemeinhin als Herausforderer der westlichen Führungsmacht USA angesehen werden.

Hier liegen die Frontlinien im Sicherheitsrat und hier liegt der eigentliche Skandal für Richard Herzinger, der als Obergutmensch gerne den publizistischen Herold der „westlichen Wertegemeinschaft“ mimt. Wenn er schon die Argumente Rußlands und Chinas nicht gelten lassen will, sollte er zumindest die indische Begründung für die Stimmenthaltung im Sicherheitsrat studieren. Der indische UN-Botschafter Hardeep Singh Puri erklärte nämlich, der Sicherheitsrat handle, obwohl er über keinerlei „belastbare Informationen“ über die „Lage vor Ort“ verfüge. Überdies gebe es keine Klarheit in Hinsicht auf eine Reihe anderer relevanter Parameter der Intervention. All das sind beste Voraussetzungen für eine neuerliche „Schlacht der Lügen“ mit ihren bekannten propagandistischen Nebelwänden.

Chinas Interessenpolitik

Bleibt die Frage, warum sich China der Stimme enthalten hat, das bei einem politischen Überleben Gaddafis mit Sicherheit zu den Profiteuren gehören würde, weil es einen privilegierten Zugriff auf die Erdölressourcen des Landes in Aussicht gestellt bekommen hat. Der chinesische Botschafter verwies in diesem Zusammenhang auf die Entscheidung der Arabischen Liga, vom UN-Sicherheitsrat die Einrichtung einer Flugverbotszone zu verlangen.

Mit anderen Worten: China vertritt nach Abwägung aller Argumente offenbar die Auffassung, eine Blockade der Resolution könnte womöglich eine Schädigung chinesischer Geschäftsinteressen im arabischen (und westlichen) Raum zur Folge haben und entschied sich deshalb für eine Stimmenthaltung. So hat jede Seite ihre Gründe. Nur eines ist bei diesen Gründen mit Sicherheit nicht ausschlaggebend, nämlich die Durchsetzung von „Frieden und Demokratie“ für die „Menschen in Libyen“. Genau das aber versuchen, um in der Diktion zu bleiben, bornierte Wertegemeinschafts-Bellizisten wie Herzinger e tutti quanti glauben zu machen.

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.

 

Libya: Kosovo Redux

libye.jpg

Libya: Kosovo Redux

By Richard Spencer
 

I must confess that I have a half-written blog entry on how the Obama administration has, in essence, given up on the American Empire. Due to fiscal constraints, its own incompetence, and its lack of self-assurance in the wake of Iraq and rising anti-Americanism, the Democratic power elite (along with allies like Robert Gibbs) simply doesn’t have the will to act. It was thus unwilling to save Israel’s ally Hosni Mubarek and has been dragging its feet instituting a no-fly zone over Libya. Actively toppling the Gaddafi regime would be out of the question.

I further argued that this inaction will be opposed and demeaned by the mainstream Republican presidential contenders (with the possible exception of Haley Barbour), who will shriek about how Obama is “appeasing dictators.” (On this front, see the Politico’s recent piece “The Return of the Neocons.”)

I was to conclude that for those of us who think the American Empire is a liability for both the American people and the West in general, the Democrats‘ dilly-dallying is actually preferable to the Republicans’ lunatic war-mongering.

Well, needless to say, my half-written blog has been overtaken by events, and my sense that the Democrats are giving up on empire now seems like wishful thinking.

Instead, what we are experiencing today in Libya is a situation that, in many ways, resembles the last time a Democratic president engaged in major military action overseas.  It’s Kosovo all over again:

  • The UN offers its imprimatur;
  • NATO provides the muscle;
  • The U.S. declares war on a small national regime with no clear objectives or exit-strategy;
  • A statesman (Milošević/Gadaffi), whom Washington had dealt with civilly only months before, is depicted as a Hitlerian menace (and the dutiful media eats it up);
  • The U.S. takes sides in a civil war and uses its air and missile power on behalf of a group (the KLA/Libyan rebels) that is -- at best -- highly dubious.

Libya might actually turn out far worse than Kosovo in that it will eventuate in a failed state and a mass Muslim refugee flow into Europe.

Daniel Larison is quite good on these matters:

The similarities with Kosovo are eerie, and that is a very bad sign for the people living in eastern Libya. Perhaps the only thing worse than intervening in a civil war in which the U.S. and our allies have nothing at stake is to intervene and then opt for those tactics that will do just enough to commit us to the fight without protecting the people our forces are supposed to be protecting. Quite apart from the outrageous harm done to both Albanian and Serb civilians in the prosecution of the air campaign, the war in Kosovo facilitated and caused the mass refugee exodus from Kosovo that it was officially trying to avert. The U.S. and our allies weren’t going to be responsible for what happened to the people in eastern Libya, but our governments have now assumed responsibility for them.

Whatever you want to say about them, the ’99 House Republicans were steadfastly against Clinton’s Kosovo adventure; Gov. George W. Bush (in another life) actually scolded Al Gore for engaging in “nation-building.” After the entire mainstream GOP went “all in” for Iraq, they now have nothing to run on.

Totalitarian Humanism Versus Qaddafi

porteavions222.jpg

Totalitarian Humanism Versus Qaddafi

By Keith PRESTON
 

In past blog postings for AltRight, I have discussed the phenomenon of what I call totalitarian humanism,” a particular worldview that I regard as being at the heart of the most serious political and cultural problems currently facing the modern West. Specifically, I consider totalitarian humanism to be an intellectual and ideological movement among contemporary Western elites that serves as a replacement for older worldviews such as Christianity, nationalism, cultural traditionalism, Eurocentrism, or even Marxism. Such features of modern life as political correctness and victimology serve as a representation of the totalitarian humanist approach to domestic policy. The present war against the Libyan state provides an illustration of what the totalitarian humanist approach to foreign policy and international relations involves.

The regime of Colonel Qaddafi poses no conceivable threat to Western nations. Allegations of Qaddafi’s insanity not withstanding, his substantive efforts over the past two decades to ease tensions between Libya and the West have shown his capabilities for behaving as a rational actor and practicing realpolitik. As recently as August of 2009, Qaddafi was described by David Blair of the Daily Telegraph as having “gone from being the epitome of revolutionary chic to an eccentric statesman with entirely benign relations with the West.” These benign relations ended with the outbreak of the present civil war between Qaddafi and opponents of his regime. Richard Spencer has pointed out the nearly identical parallels between Western intervention in Kosovo in 1999 and the current intervention in Libya. Both interventions serve as prototypes for the vision for the world that our contemporary elites possess. An interesting discussion that aired earlier today on ABC’s This Week cuts to the chase of the matter. Former Congresswoman Jane Harman, now of the aptly named Woodrow Wilson Center, monster neoconservative Paul Wolfowitz, and Wilson Center scholar Robin Wright provided rationales for the intervention that involved no consideration whatsoever of national interests, geopolitical questions, or legitimate defensive concerns. Essentially, their rationales amount to little more than “Qadaffi runs an illiberal regime.”

Libya under Qadaffi represents everything Western elites despise: a conservative, religious, nationalistic, traditional, patriarchal, tribal society that has resisted the penetration of its own culture by the norms of Western, secular, liberal, humanism and globalism. According to the religion of Western elites, Qaddafi is an infidel and must be punished or destroyed. The intervention in Libya is essentially about spreading the Jacobin revolution to the Middle East (a plausible argument of a comparable nature could be made concerning the Bush administration’s invasion of Iraq). The role of the United Nations and the participation of certain usually rather pacific European nations in the assault on Libya is rather telling. The vision of the elites is one where a global super-state maintains an international army whose purpose is the eradication of political institutions and cultural values that fail to conform to the standards of totalitarian humanism. Kosovo and Libya are essentially pilot programs for this future vision.

dimanche, 20 mars 2011

Les enjeux de la bataille pour Tripoli

Combats-en-Libye_scalewidth_630.jpg

Les enjeux de la bataille pour Tripoli

Alexandre LATSA

Ex: http://fr.rian.ru/

Le directeur de l’Institut du Proche-Orient, Evgueny Satanovsky à donné récemment une interview extrêmement intéressante sur la position que la Russie devrait selon lui adopter face aux révolutions dans le monde Arabo-musulman. Cette interview mérite une place dans le panthéon du multilatéralisme et du non-interventionnisme.

Selon lui, ces mutations dont on ne peut pour l’instant réellement prédire l’évolution pourraient également s’étendre aux pays d’Afrique noire (car ceux-ci sont victimes des même maux et que leurs frontières issues de la décolonisation sont fragiles) mais également à certains pays d’Asie comme par exemple le Pakistan, par ailleurs doté de l’arme nucléaire.

Cette potentielle agitation pourrait donc entrainer une modification des frontières mais aussi des grands équilibres internationaux. La Russie, poursuit Evgueny Satanovsky devrait "s’abstenir d’intervenir et conserver son énergie et son argent sur son développement intérieur, et ne pas du tout rentrer dans une logique néo-soviétique d’investissement à perte". Il affirme que "la Russie devrait probablement imiter la Chine qui construit des routes et des chemins de fer sur son territoire et qui ne va au Proche-Orient et en Afrique qu’à la recherche des matières premières". Enfin rappelle t-il "beaucoup de régions russes en Sibérie et en Extrême-Orient ont un niveau de vie inférieur aux pays que la Russie pourrait être tentée d’aider".

Ces révolutions qui se déclenchent ci et là ne sont réellement pas toute de mêmes natures même si on peut leur trouver des points communs, le premier étant d’appartenir à ce grand moyen orient que l’administration Américaine en 2003 s’était juré de remodeler et transformer en une zone libre, comprenne qui pourra. Certes la plupart des pays concernés ont en général une situation interne propice à des explosions sociales mais on peut se poser la question de savoir comment interpréter l’offensive diplomatique et médiatique anti-Kadhafi en faveur de rebelles, en partie Islamistes, mais qui ont déjà les faveurs de Nicolas Sarkozy, de Bernard Henri Lévy et de quasiment toute la communauté internationale. Bien sur le colonel Kadhafi est loin d’être un grand démocrate et la Lybie loin d’être une social-démocratie à l’Européenne, mais la Lybie n’a jamais adhéré à l’Islamisme radical global.

La révolution socialiste y a abouti à la constitution d’un régime qui n’est finalement pas le moins démocratique ni le plus pauvre de la région, et ce malgré 10 ans d’embargo, et un leader ennemi public de la communauté internationale. En 40 ans, la population libyenne à été multipliée par quatre, une classe moyenne éduquée à vu le jour, le taux d'analphabètes était en 2006 de 8% pour les hommes (contre 36% au Maroc et 16% en Tunisie) et 29% pour les femmes (contre 50% au Maroc et 36% en Tunisie). Enfin les droits des femmes y sont mieux défendus que dans nombre d’autres pays musulmans puisque elles sont actuellement majoritaires dans l’enseignement supérieur. Une leçon aux Ben-Ali et autres Moubarak, amis de la communauté internationale, de l’Occident et du FMI, mais incapables d’instaurer le moindre embryon de justice sociale et financière au sein de leurs sociétés.

J’ai brièvement expliqué dans ma précédente tribune le risque quasiment nul qu’une révolution à l’Egyptienne puisse survenir en Russie. Pour autant, la Russie reste très attentive aux derniers évènements, notamment en Libye. Les conséquences que la chute du régime Libyen, souhaitée hâtivement par les Occidentaux, France en tête, auraient par ricochet sur la Russie sont en effet assez importantes. Bien sur depuis le début des évènements dans le monde arabe la Russie profite de la hausse du prix du pétrole qui lui permet de réduire fortement son déficit budgétaire mais également de consolider ses réserves financières. En outre, et peut être surtout, la Russie apparait désormais (et il était temps) à l’Union Européenne comme un fournisseur stable et apte à compenser le manque libyen.

L’analyste Dmitri Babitch à même souligné que la crise Libyenne était d’ailleurs devenue le catalyseur des bonnes relations Russie/UE. Néanmoins cette dépendance confortable et accrue envers l’or noir ne va pas dans le sens voulu par les autorités russes. La Russie souhaite en effet réorganiser et renforcer son industrie et ne souhaite pas s’installer seulement dans la rente pétrolière. Rappelons-nous également que la dernière flambée excessive des prix du pétrole en aout 2008 avait mené (plus ou moins directement) à l’implosion financière mondiale qui a fait tant de mal à l’économie russe. Enfin, les pertes économiques qui pourraient résulter d’un remplacement de Kadhafi ou d’une dislocation à la Yougoslave de la Libye pourraient faire perdre à la Russie des milliards de dollars, que l’on pense aux contrats en cours de vente d’armes, d’extraction de pétrole, de constructions d’installations énergétiques ou hydrotechniques, ou de l’immense projet par les chemins de fers russe de construction d’un réseau ferré à travers tout le pays.

Les évènements en Lybie restent donc aujourd’hui l’équation la plus incertaine pour la Russie. Ce qui justifie les positions neutres et non interventionnistes russes, cherchant sans doute un statuquo. C’est peut être pour cette raison que Kadhafi, après avoir joué la carte du Panarabisme, du Panafricanisme, puis la carte d’un rapprochement désordonné avec l’Occident, vient de sortir un  joker BRIC en appelant  très récemment la Russie, la Chine et l’Inde à investir en Libye. Il est également possible que si les contestations venaient à se généraliser et s’étendre, le Caucase, voir l’Asie centrale pourraient être touchés par ces "agitations non violentes". Pas plus tard que avant-hier, l’Azerbaïdjan a par exemple connu sa première manifestation Facebook.

Bien sur il est possible que ces révolutions entrainent également la chute de régimes plutôt hostiles à la Russie comme en Géorgie, mais pour autant l’instabilité de son étranger proche n’a jamais contribué à sa sérénité intérieure, surtout à la veille d’élections. Evgueny Satanovsky pense lui que "la boite de Pandore est ouverte, et qu’on verra ce qui va en sortir". Une chose est certaine, la Libye pourrait marquer un coup d’arrêt à ces mouvements de protestations si Kadhafi arrivait à restaurer l’ordre et écraser la rébellion, ou les accélérer dans le cas contraire.

La disparition des "dictateurs" a déclenché un courant d’enthousiasme dans de nombreux pays occidentaux, qui comprennent mal l’attitude prudente de la Russie. Il suffit pourtant de regarder le prix de l’essence à la pompe pour comprendre ce qui se passe. Si d’autres producteurs de pétrole sont déstabilisés, notamment dans le golfe arabo-persique, c’est la faible croissance économique des USA et de l’Europe occidentale qui sera menacée en premier.


"Un autre regard sur la Russie": Tunis, Le Caire, mais pas Moscou!

Nicht nur Libyen brennt : Islamistische Gewalt in Ägypten und Tunesien in beängstigendem Ausmass

 

Nicht nur Libyen brennt : Islamistische Gewalt in Ägypten und Tunesien in beängstigendem Ausmass

Geschrieben von: Robin Classen 

Ex: http://www.blauenarzisse.de/  

 

GaddafiDie Ereignisse in Nordafrika überschlagen sich, der Überblick droht für den Westeuropäer immer mehr verloren zu gehen. Die Volksaufstände, die ihren Ausgang in Tunesien fanden, haben sich nach der erfolgreichen ägyptischen Revolution nun auch auf dutzende andere arabische Staaten ausgebreitet. Selbst ölreiche Staaten wie Saudi-Arabien, die ihre Bevölkerung seit Jahrzehnten mit „Brot und Spiele“ bei Laune halten, haben bereits prophylaktische Demonstrationsverbote und ähnliche repressive Anordnungen erlassen. Am stärksten wütet der Volkszorn der arabischen Welt momentan jedoch in Libyen, dem seit Jahrzehnten vom Gaddafi-Clan in diktatorischer Art und Weise geknechteten nordafrikanischen Nachbar von Tunesien und Ägypten.

Seit Wochen sind sowohl Printmedien als auch Fernsehen und Internetmagazine voll von Meldungen über den Stand der Kämpfe in Gaddafis Staat, so dass die Entwicklungen in Ägypten und Tunesien völlig ins Hintertreffen geraten. Die befürchtete islamisch-religiöse Dimension der Konflikte scheint sich dort derweil zu bestätigen. In Tunesien, dem wohl liberalsten nordafrikanischen Land, wurden die Rotlichtviertel in Tunis von Islamisten abgebrannt und ein polnischer Priester enthauptet.

Noch dramatischer ist die Lage in Ägypten, welches momentan bereits an der Schwelle zum islamistischen Gottesstaat steht. Die schon während der Revolution auftretenden Berichte über Angriffe auf koptische Kirchen und Kloster haben sich verdichtet. Die imposante Kirche des Heiligen Georg in Rafah wurde beispielsweise komplett ausgebrannt und geplündert. Als die koptische Gemeinde wenigstens die Kirchturmglocke reparieren wollte, rief dies einen 3000-Mann starken islamischen Mob auf den Plan, der mit Macheten bewaffnet das koptische Heiligtum stürmen und komplett zerstören wollte. Außerdem wurden christliche Kloster von der ägyptischen Armee beschossen, die Mauern mit Bulldozern eingerissen und Priester in den heiligen Gemäuern mit Maschinenpistolen hingerichtet.

Verdrehte Freund- und Feindbilder in den westlichen Medien

Berichtet wurde über diese Vorkommnisse in den Medien so gut wie gar nicht, was wohl daran lag, dass man eine solche Entwicklung der arabischen Revolution schon zu Beginn hätte erahnen können, aber nicht hat wahrhaben wollen. Wie verdreht die Freund- und Feindbilder der westlichen Medien schon bei den ersten Demonstrationen in Ägypten waren, zeigte sich bereits an der Vergewaltigung der amerikanischen Journalistin Lara Logan. Diese dachte offensichtlich im neuen, angeblich demokratischen Ägypten in westlicher Kleidung auftreten zu können. Während sie von Anhängern der „Demokratiebewegung“ geschlagen, getreten und letztlich einer Massenvergewaltigung zum Opfer fiel, waren es die „Schlägerbanden“ und „Mörder“ Mubaraks, die die Frau aus den Händen des islamistischen Mobs retteten.

Interessant ist, dass nach dem Rücktritt Mubaraks die Berichterstattung in den westlichen Medien praktisch ausgesetzt, in den arabischen Medien aber erst richtig angefangen hat. Die Information, dass eine der größten Demonstrationen auf dem Tahrir-Platz erst nach dem Sturz-Mubaraks stattgefunden hat, wurde in Tagesschau und Heute-Journal mit keiner Silbe erwähnt, wohingegen der islamische Sender Al-Jazeera seinem Publikum Live-Bilder sendete. Die Versammlung auf dem Tahrir-Platz, von der die Rede ist, war anlässlich einer Ansprache des islamistischen und radikal-antisemitischen Fernsehpredigers Yusuf al-Qaradawi, der nach Jahrzehnten des Exils – Islamisten waren unter Mubarak in Ägypten unerwünscht – wieder in seine alte Heimat zurückgekehrt ist.

Zusammen mit mehreren Millionen Zuschauern stimmte der Islamist Sprechchöre an, die die Zerstörung Israels und die Fortsetzung der islamischen Revolution forderten. „Oh Allah, nimm diese unterdrückende, tyrannische Bande von einem Volk [...] nimm diese unterdrückende jüdische Zionistenbande von einem Volk [...] lasse nicht einen einzelnen übrig. Oh Allah, zähle sie und töte sie, bis zum allerletzten von ihnen”, tönte der Hassprediger bereits in der Vergangenheit.

Gaddafi war in der Vergangenheit ein sehr wichtiger afrikanischer Staatsmann

Vor diesem Hintergrund nehmen auch die Kämpfe in Libyen einen ganz anderen Charakter an. Zu Beginn der Ausschreitungen war kaum etwas über Ausmaß und Wahrheitsgehalt der lediglich als Gerüchte auftretenden Berichte bekannt. Gaddafi hatte praktisch das ganze Land von ausländischen Medienvertretern gesäubert und jegliche Verbindung zur Außenwelt gekappt. Trotz der vollkommen unübersichtlichen Lage war auch hier den westlichen Medien in beeindruckender Sturheit klar: Die Demonstranten sind Teil einer Demokratiebewegung.

Zugegeben: Momentan lässt sich weder dies, noch das Gegenteil behaupten, denn anders als in Tunesien und Ägypten handelt es sich bei Gaddafi keineswegs um einen Herrscher, der enge Kontakte zum Westen pflegte und eher dem gemäßigten Lager angehörte. Gaddafi war für die Vertretung afrikanischer Interessen ein gewichtiger Faktor, weswegen sich auch die anderen afrikanischen Staatsmänner bedeckt halten und nicht offen gegen ihn Stellung nehmen. Gaddafi hat in den vergangen Jahren Unmengen in den Aufbau von Infrastruktur in ganz Afrika investiert. Außerdem hat er die „Afrikanische Union“ als starke Interessenvertretung Afrikas in der Welt gegründet und Europa immer wieder mit der Drohung einer Masseneinwanderung von Muslimen und Afrikanern in das christliche Abendland unter Druck gesetzt.

Unvergessen sind seine Ankündigungen, dass Europa noch in diesem Jahrhundert islamisch werde und sein Besuch in Italien, für den er sich hunderte Prostituierte in einen Saal bestellte, um ihnen aus dem Koran vorzulesen. Diese exzentrischen, aber doch bedrohlichen Auftritte brachten ihm in der radikalislamischen Welt viele Sympathien ein und rechtfertigen das Prädikat „Islamist“ für den lybischen Staatschef. Doch wesentlich stärker als Mubarak, vereinigt Gaddafi einige Charaktermerkmale auf sich, die mit der islamischen Lehre nicht in Einklang zu bringen sind.

Der Nationalsozialist Gaddafi: Nicht im Einklang mit islamischer Lehre

Gaddafi ist wohl wie kein zweiter Staatschef selbstverliebt, herrschsüchtig und begreift sich selbst als obersten Herrn auf Erden, als eine Art Propheten. In jeder libyschen Gemeinde liegt deshalb auch das „Grüne Buch“, ein religiös-politisches Ideologiepamphlet, mit welchem Gaddafi Libyen über Jahrzehnte hinweg mit eiserner Faust regierte. Inhaltlich lässt sich die Gaddafi-Ideologie, die eine für Islamisten nicht akzeptable Einmischung und Veränderung der in Koran und Scharia verankerten Prinzipien darstellt, wohl am ehesten als mit islamistischen und spirituell-esoterischen Elementen versehener Nationalsozialismus bezeichnen.

Zu dieser islamischen „Gotteslästerung“ kommt auch noch die Sozialpolitik, die in Tunesien beispielsweise die Proteste erst ins Rollen gebracht hat. Gaddafi lebt als selbsternannter Prophet in persönlichem Reichtum, während sein Volk in gesellschaftlicher und wirtschaftlicher Armut vor sich hin vegetiert. Es ist also, im Kontext der islamistischen Entwicklungen in Ägypten und zum Teil auch in Tunesien, durchaus nicht unwahrscheinlich, dass in Libyen gerade der eine Islamist durch eine Gegenbewegung von anderen, genuinen Islamisten zu Fall gebracht wird. Dies würde auch eine Fernsehbotschaft Gaddafis erklären, in der gerade er davor warnte, dass Libyen in die Hände von Fundamentalisten fallen könnte.

Die Folgen für Europa sind derweil kaum überschaubar, eine Analyse kann daher nur bruchstückhaft und ohne Anspruch auf Vollständigkeit erfolgen. Abgesehen von den Drohungen Gaddafis gegen Europa, war er trotzdem bisher ein verlässlicher Partner zahlreicher westlicher Regierungen, insbesondere der italienischen unter Berlusconi, zu welchem er eine eigenartige Männerfreundschaft pflegt. Aus dieser heraus wurde auch ein Abkommen geboren, in welchem Libyen gegen Geld zusichert, eine Masseneinwanderung nach Europa zu verhindern und bereits in Italien gelandete Flüchtlinge aufzunehmen. Außerdem erhielten italienische Firmen Mammutaufträge, wie den des Baus einer 1700 Kilometer langen Autobahn.

Gaddafi war bisher in der Lage, die ehemalige italienische Kolonie, die sich aus dutzenden, miteinander mehr oder weniger verfeindeten und zerstrittenen Stämmen konstituiert, zu einen und zu stabilisieren. Dass dies nur durch eine beinharte, repressive Politik und durch die Zahlung von Bestechungsgeldern an die Stammesfürsten möglich war, ist die andere Seite der Medaille. Die Zukunft Libyens ist daher ungewiss und lässt eine Spaltung des Landes und einen jahrelangen Bürgerkrieg zwischen verfeindeten Stämmen und Gruppierungen befürchten. Momentan scheint der Osten des Landes zwar vereint gegen Gaddafi vorzugehen, doch wenn erst einmal das gemeinsame Feindbild weggebrochen ist, werden Verteilungs- und Machtfragen für Streit sorgen.

Libyen ist ohne eine Kooperation mit dem Westen nicht lebensfähig

Schon allein die Verteilung der libyschen Ölquellen wird für Rivalitäten unter den Stämmen sorgen, von der von europäischen und amerikanischen Energieunternehmen in Zusammenarbeit mit einem libyschen Staatsunternehmen geplanten Erschließung der gigantischen Gasvorkommen unter der libyschen Wüste gar nicht zu reden. Gerade diese scheint jedoch auch Anlass zur Hoffnung zu geben, denn ohne Kooperation mit dem Westen, zumindest im Bereich des Energiehandels, ist Libyen nicht lebensfähig.

Heute speisen sich rund 60 Prozent der staatlichen Einnahmen aus dem Erdölhandel und Alternativen sind nicht in Sicht. Libyen könnte sich zu einem nordafrikanischen Musterknaben wandeln, sofern die Öleinnahmen endlich gerecht verteilt und in Bildung und Infrastruktur investiert würden. Diese positive Zukunftsvision liegt jedoch noch in weiter Ferne, solange Islamismus und regionale Feindseligkeiten das Bild des Landes bestimmen.

Eine weitere mögliche Entwicklung wäre, dass Gaddafi wider aller Erwartungen die Macht halten könnte. Momentan befinden sich die Rebellen, die den Osten des Landes unter ihre Kontrolle gebracht haben, in der Defensive. Gaddafi bombardiert rücksichtslos sein eigenes Volk. Er heuert immer mehr Söldner aus Schwarz-Afrika an und verfügt noch über zwanzig- bis dreißigtausend absolut loyale Elitetruppen, die notfalls auch die Waffe gegen Zivilisten richten werden. Beistand aus Europa für die Revolutionäre?

Viel Blut in Libyen in den nächsten Monaten. Nach dem Kampf gegen Gaddafi werden innere Verteilungskämpfe folgen.

Außer Lippenbekenntnissen, dem vorsichtigen Vorstoß von Frankreichs Präsident Sarkozy und zaghaften UN-Resolutionen ist bisher nichts passiert, der bisherige, bestenfalls als peinlich, schlimmstenfalls als katastrophal zu bezeichnende Umgang der westlichen Staatsführer mit ihren wackelnden nordafrikanischen Despoten-Freunden wird fortgesetzt. Gaddafis Stuhl wackelt – der Westen könnte ihn zu Fall bringen, doch stattdessen antworten die UN-Papiertiger mit Resolutionen, anstatt der arabischen Welt mit handfester, militärischer Unterstützung zu signalisieren, dass man eben nicht auf der Seite der volksfeindlichen Diktatoren steht.

Sollte das libysche Volk es tatsächlich schaffen, Gaddafi zu stürzen, so wird sich sein Hass danach gegen den Westen richten, der bei den blutigen Massakern mehr oder weniger tatenlos zugesehen hat. Neben der esoterisch-nationalistisch-sozialistischen Ausrichtung vereint Gaddafi noch ein weiterer Umstand mit Hitler: Im Gegensatz zum pragmatisch-säkularen Mubarak wird Gaddafi „bis zum letzten Mann und bis zur letzten Frau“ kämpfen und nicht freiwillig den Rückzug antreten. Diese bereits mehrfach verlautbarte Drohung müsste dem Westen eigentlich umso deutlicher machen, wie notwendig ein militärisches Eingreifen jetzt ist.

Auch die Passivität Ägyptens verwundert, liegt das Land doch direkt nebenan und könnte mit seiner 500.000-Mann Armee dem libyschen Volk zur Seite springen und damit das Fundament für eine langfristige Freundschaft der beiden Völker, aber auch für einen tiefgreifenden Einfluss der ägyptisch-islamistischen Strömungen in Libyen sorgen.

Die beste Lösung wäre wohl ein durch ein UN-Mandat legitimiertes militärisches Eingreifen westlicher Mächte und ein darauf folgender Aufbau eines demokratischen Staatswesens, um die westlichen Energieinteressen und die Stabilität und Modernisierung des libyschen Staates zu sichern. Ob dabei die möglicherweise islamistischen Protestbewegungen jedoch überhaupt mitspielen würden, ist ungewiss. Fest scheint nur zu stehen, dass die nächsten Monate das libysche Volk noch viel Blut und viele Menschenleben kosten werden und dass die Zukunft des Landes, sowie des gesamten arabischen Kulturraums noch in den Sternen steht.

Où va la Libye?

Mouammar-Khadafi1.jpg

Où va la Libye?

Un entretien avec Pierre Le Vigan

La Libye est déchirée par la situation actuelle. Inutile de revenir sur les morts, des centaines ou des milliers. Visiblement Kadhafi ne veut pas finir lamentablement comme Moubarak ou Ben Ali. Il a de l’énergie, et sans doute un grain de folie qui fait les vrais hommes d’État, ce qui n’atténue pas la réalité de ses erreurs ou de ses crimes.

Justement Kadhafi est-il autre chose qu’un infâme dictateur ?

La politique n’est pas la morale. L’essentiel n’est pas de « s’indigner » mais de comprendre et ensuite de faire des choix politiques. Il faut d’abord rappeler ce qu’est la Libye : moins de 7 millions d’habitants, dont 2 millions à Tripoli et 650 00 à Benghazi la deuxième ville du pays. 90 % d’Arabes et moins de 5 % de Berbères, à l’ouest, près de la Tunisie. Beaucoup d’immigrés aussi : ils constituent 20 % de la population et 50 % de la population active. Une population essentiellement concentrée sur la zone côtière. Et trois régions, la Tripolitaine à l’Ouest, la Cyrénaïque à l’est, le Fezzan, presque désert, au sud.

La vérité c’est que la Libye moderne est née avec Kadhafi.  Romanisée sous l’Antiquité, normande quelques années au XIIe siècle ( !), colonie turque conquise par les Italiens en 1911-12, la Libye devient indépendante en 1951 sous un roi, en fait l’ancien émir de Cyrénaïque, chargé implicitement de la maintenir dans l’orbite anglo-saxonne. Il n’y a alors qu’un million d’habitants en Libye. C’est à l’époque le principal pays africain producteur de pétrole, avec un gros essor à partir des découvertes de 1958. En 1969 le coup d’État du capitaine Mouammar Kadhafi et d’un groupe d’ « officiers libres » - la terminologie est la même qu’en Égypte - est un coup de tonnerre anti-occidental. Le capitaine, devenu colonel, Kadhafi, fait évacuer les bases anglo-américaines de Libye, et nationalise les compagnies pétrolières en 1973. C’est un proche de Nasser. Kadhafi tente une fusion avec l’Égypte et la Syrie en 1971. Elle éclate 2 ans plus tard. En 1974 c’est avec la Tunisie qu’une tentative de fédération est menée. Elle avorte aussi. Kadhafi  publie en 1976 son Livre Vert sur la troisième voie. Il y critique l’enrichissement personnel incompatible avec la justice, et prône la démocratie directe, en fait une démocratie plébiscitaire, à la place de la démocratie parlementaire occidentale. Sa radicalisation anti-américaine et anti-israélienne, son soutien présumé (par ses adversaires) à des groupes terroristes amène les Américains à essayer de l’assassiner en avril 1986 par des raids meurtriers sur Tripoli et Benghazi. La fille adoptive de Kadhafi est tuée. À partir de là l’évolution dictatoriale et erratique de Kadhafi s’accentue. Ses sorties médiatiques s’orientent vers une certaine clownerie involontaire, même si, en France ou avec G-W Bush nous avons parfois été confrontés à ces décalages entre l’être et la fonction. Un jour, il annonce que William Shakespeare est en fait un Arabe («Cheikh Spir »), un autre jour il plante sa tente bédouine à coté de l’Élysée, et cultive  un look auprès duquel Galliano est un garçon sans imagination.

Jusqu’à la fin des années 90 la Libye est mise au ban de l’ONU et soumise à un embargo militaire. La détente s’amorce à partir de 2003-2004 avec la fin de l’embargo militaire (« Le nouveau Kadhafi », Le Monde, 7 janvier 2004). Kadhafi se rapproche des Occidentaux, démantèle son programme nucléaire,  et se présente comme un rempart contre le terrorisme. Et aujourd’hui encore il prétend que les émeutes sont manipulées par Al-Qaida maghreb, la prétendue AQMI.

Pourquoi ce tournant occidentaliste de Mouammar Al-Kadhafi ?

 Vous aurez remarqué que 2003 c’est la deuxième guerre du Golfe et l’agression américaine contre l’Irak. Cela donne à réfléchir. Surtout quant on voit que l’Irak, pays de 30 millions d’habitants, à réelle tradition militaire, n’a rien pu faire contre les envahisseurs alors que la Libye ne compte qu’un peu plus de 6 millions d’habitants.

Quel a été le rapport de Kadhafi à l’Islam ?

 

Que restera t-il de Kadhafi quand on pourra poser un regard distancié sur son action politique ?

La modernisation du pays, un formidable effort d’éducation qui fait de la Libye le pays du Maghreb où il y a le plus haut niveau d’éducation, l’accession des femmes à l’enseignement – elles sont actuellement majoritaires dans l’enseignement supérieur -, le recul de l’âge du mariage des femmes, la mixité jusqu’à l’équivalent du collège, en fait, globalement on retiendra  une modernisation-occidentalisation accélérée tout en étant jusqu’aux années 1990 un ennemi déterminé des politiques impérialistes de l’Occident Atlantique (et atlantiste).

Ce que nous montre la géographie des émeutes, c’est que l’est de la Libye semble particulièrement hostile à Kadhafi tandis que ce dernier paraît encore en mesure de contrôler l’ouest, du coté de la capitale Tripoli. Dès lors, la Libye n’est-elle pas appelée à disparaître, à éclater ? N’est-elle pas un État artificiel ?

La Libye n’est pas plus artificielle que la France, c’est une construction historique. Libye désignait sous l’Antiquité tout ce qui est à l’ouest de l’Égypte en Afrique du Nord. Il y eut le royaume de Cyrène des VI et Ve siècle av. J-C, habité par les Libous (Libyens), et la Marmarique, entre Égypte actuelle et Libye. La capitale de la province de Libye était Barqa, à 100 km à l’est de Benghazi. Il se trouve que la Libye a déjà – ce n’est pas rien – une identité négative : elle n’est pas l’Égypte, elle n’est pas non plus la région de Carthage. C’est sans doute néanmoins avec la Tunisie qu’il y aurait le plus de raisons pour la Libye – et réciproquement pour la Tunisie - de se rapprocher. D’autant que le poids démographique des deux nations est proche et que de ce fait aucun n’a à craindre d’être absorbé par l’autre.

Comment voyez vous finir la crise libyenne ?

La pression internationale contre Kadhafi est très forte. On voit mal comment il pourrait résister durablement. Mais rien n’est joué. Ce qui est sûr, c’est que l’Europe ne doit aucunement s’associer à une éventuelle intervention américaine. L’inculpation de Kadhafi pour crimes contre l’humanité n’a pas non plus de sens, elle n’est pas de nature à favoriser une solution qui ne peut être viable qu’entre Libyens. Une intervention des pays arabes, qui serait l’une des moins mauvaises solutions, ne parait pas souhaitée par ceux-ci. Il est vrai qu’ils ne sont guère en état de donner des leçons de stabilité et de consensus. Une médiation sud-américaine, avec Hugo Chavez, offrait une bonne possibilité de sortie de crise, mais les Occidentaux bellicistes, Sarkozy en tête, se sont empressés de la rejeter. Le problème de la Libye c’est qu’il n’y a pas d’élite autochtone prête à prendre la succession de Kadhafi sur la base du maintien de l’indépendance nationale. La solution, s'il y en a une dans l'intérêt des peuples européens et méditerranéens, ne peut se trouver qu'à partir d'un compromis négocié : le contraire de ce que proposent David Cameron et Nicolas Sarkozy (conseillé par Bernard-Henri Levy!) qui font comme d'habitude les rabatteurs pour l'axe impérialiste Washington-Tel-Aviv.

Source Esprit européen : cliquez ici

 

Bernard Lugan: "L'Afrique n'est pas un continent économique"

Bernard Lugan : « L’Afrique n’est pas un continent économique »

Ex: http://fr.novopress.info/

Le 8 mars dernier a eu lieu une conférence sur « Les grands problèmes de l’Afrique subsaharienne d’aujourd’hui », donnée à la Chambre de Commerce et d’Industrie de Versailles, par Bernard Lugan, historien spécialiste de l’Afrique [1].

L’actualité récente de la Côte d’Ivoire illustre parfaitement la résistance de l’Humanité diverse contre le mondialisme uniformisateur. Selon Bernard Lugan (photo), « les Africains sont des gens enracinés. Ils comparent Alassane Ouattara, vainqueur de l’élection présidentielle, à un Dominique Strauss-Kahn noir », les deux hommes étant professionnellement liés au FMI, le Fonds monétaire international.

Bernard Lugan observe que « depuis 1960, les approches de l’Afrique ont toujours été économiques. Les Africains sont perçus comme des Européens pauvres à la peau sombre ». Or appliquer le modèle économique occidental au continent noir se révèle inadapté, ne serait-ce que pour des raisons culturelles. Ayant enseigné pendant 11 ans à l’Université nationale du Rwanda, Bernard Lugan explique que « les notions d’Hier et de Demain ne sont pas les mêmes qu’en Occident. Les Africains se demandent pourquoi prévoir, puisque demain n’appartient qu’à Dieu et aux Dieux ». Une constatation nullement raciste car « comme le disait Lyautey, les Africains ne sont pas inférieurs, ils sont autres », souligne Bernard Lugan.

Le système économique occidental repose sur une soif de consommation importante en comparaison avec d’autres civilisations humaines. Plaquer ce style de vie fortement individualiste sur les corps communautaires africains mènerait à des troubles sociologiques. « L’individu n’existe pas en Afrique. L’Homme fait partie d’un lignage ; le culte des ancêtres fait que chaque africain est capable de réciter sa généalogie sur plusieurs générations », explique Bernard Lugan. Le cas des noirs américains des classes populaires baignant dans un environnement culturel mondialiste indique que cette voie ne saurait-être la bonne pour l’épanouissement du continent noir. Gavé de « malbouffe » issue des chaînes de fast-foods, de musiques RAP agressives et de films violents, le noir New-Yorkais est, aux yeux de Bernard Lugan, « un zombie déraciné, pas un Africain ».
La démographie galopante du continent complique également la tâche. « 100 millions d’habitants en 1900, 1 milliard aujourd’hui », précise Bernard Lugan. Pour toutes ces raisons, « l’Afrique n’est pas un continent économique », conclut-il.

Aurélien Dubois, pour Novopress France


samedi, 19 mars 2011

Sortir du cauchemar strauss kahnien

Sortir du cauchemar strauss kahnien

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

110314

Depuis la diffusion de la grande nouvelle, à savoir que DSK aurait pris sa décision en personne mais qu'il désire encore en conserver le secret, les commentaires conspirationnistes affleurent.

Ceux-ci proviennent du reste des gens auxquels on s'attend le moins. Sur RTL ce 14 mars, M. Alain Duhamel glapissait, de sa manière inimitable, une sorte de réquisitoire mettant en cause le couple infernal du populisme et du socialisme. Plus scientifique, le 12 mars M.  M.Franck Gintrand (1), conseil en communication, soulignait le trucage grâce auquel ont été calculés les résultats de l'étude Louis Harris, chiffres sur la base desquels, bien évidemment, le directeur général du FMI fait office de "sauveur". Déjà "Libération" le 7 mars avait publié une charge tant soit peu polémique de Jérôme Sainte-Marie directeur général adjoint du concurrent CSA contre le patron dudit institut : "le bonhomme nous ridiculise". (2)

Dans la pratique, à dire vrai, rien ne nous assure encore que l'époux d'Anne Sinclair daignera même quémander ni les voix virtuelles des sympathisants du PS dans le cadre des primaires de 2011, ni les suffrages effectifs des électeurs français lors de la présidentielle de 2012.

En tout état de cause son influence peut faire autant de mal au pays que son accession au pouvoir.

Reste en effet le fond du problème.

Évoquons les cures dites d'austérité qui s'imposent hélas à un certain nombre de pays européens. Ceci va englober bientôt, de manière inéluctable, la république jacobine. Dans ma chronique du 11 mars, j'avais cherché à tirer, brièvement, les leçons du cas de la Grèce. Je l'ai fait à la fois parce que je cherche à le suivre et le comprendre depuis le début et aussi parce qu'il aura été le plus immédiatement révélé à l'opinion dès l'automne 2009. (3)

Sans doute ne faut-il pas mettre ni au débit du seul Dominique Strauss-Kahn, ni à son crédit, le plan de sauvetage financier, ni dans ses grandes lignes, ni dans le détail de son application. Une assez scabreuse intervention de la "troïka" à Athènes a fait ainsi couler beaucoup d'encre et de salive. Cela se déroulait au moment même où les trois représentants de l'UE, de la BCE et du FMI constataient la bonne tenue [arithmétique] du programme gouvernemental local. Douloureusement, mais finalement de manière assez crédible, le retour vers la santé des finances publiques s'accomplit. Or, les trois porteurs d'attachés-cases ont cru bon, pour mieux faire, de suggérer une vente à l'encan des biens fonciers appartenant à l'État. Évidemment cette solution, la pire de toute, ressemble à celle que les jacobins utilisèrent au temps des assignats. (4) Mais finalement cette scandaleuse "sardine" n'aura pas bloqué longtemps le port du Pirée et il a encore été rappelé lors du Conseil européen du 11 mars qu'elle était totalement écartée.

Dans ce dossier, Strauss-Kahn n'endosse aucune responsabilité personnelle.

Seulement voilà. À vouloir incarner la finance mondiale, à poser en sauveur du capitalisme le dirigeant socialiste, l'ancien ministre de Jospin, le maire de Sarcelles, l'ancien militant des courants du PS eux-mêmes issus des groupuscules trotskistes conforte surtout son image d'ancien étudiant en économie à Chicago, et une réputation [à mon avis flatteuse, trop flatteuse] d'ancien élève du libéral conservateur Gary S. Becker. La vérité vraie consiste à considérer qu'il ne mérite sans doute "ni cet excès d'honneur ni cette indignité". Ex trotskiste ne signifie pas admirateur de Chavez ou sympathisant de Mélenchon, élève ne veut pas dire disciple, coureur de jupons ne veut pas dire violeur en série, etc.

DSK ne doit pas être vu comme le diable incarné, il en deviendrait presque intéressant. Il doit être débusqué avant tout comme un gros enfumeur.

Admirons la grande commisération avec laquelle il se penche sur le cas de la France. Le propriétaire immobilier à Paris qu'il demeure, au moins à égalité avec Marrakech, ne doit pas manquer de se préoccuper des valeurs foncières place des Vosges, ce qui implique un minimum de maintien de la sécurité du quartier, de la propreté de la ville et de l'efficacité des taxis. [Présumons que l'odeur du métro ne l'étouffe pas.] Ne reconnaît-on pas là le B A Ba de la citoyenneté ?

Malheureusement, à Paris comme n'importe où ailleurs, cela ne suffit pas.

Les équations keynésiennes, entièrement fausses du point de vue de la Théorie économique, n'interdisent pas de comprendre que les budgets publics, ceux des États comme ceux des collectivités locales, ceux des organismes sociaux comme ceux des entreprises sous contrôle ministériel, doivent se présenter, devraient revenir, seront contraints de se rétablir au moins à l'équilibre.

On ne doit donc pas tenir les critères dits de Maastricht pour de simples obligations liées à la "construction de l'Europe", ou à ce qu'il en reste. On doit les considérer comme des bases minimales assurant un plancher de crédibilité, certes grossier et arbitraire, mais en dehors duquel on entre dans le délire, au moins en temps de paix. Un grand nombre de pays européens, – dont l'Angleterre sous Gordon Brown, la France depuis Mitterrand et Chirac, etc. – y ont succombé ces dernières années.

En quoi, dès lors, l'influence de M. Strauss-Kahn conduirait-elle un programme de redressement plus mauvais qu'un autre ? Tout simplement parce qu'on ne communiquerait que sur le principe de ce programme, que ses adversaires succomberaient à la tentation et commettraient l'erreur de lui laisser le monopole de la rigueur – mais dans le quotidien, dans le réel, il se révélerait incapable de le fonder sur ses vraies bases qui s'appellent libertés, responsabilités et respect du droit de propriété.

D'un tel point de vue la régence de DSK, ou le gouvernement de celui qu'il désignera comme le plus capable de réaliser le programme qu'il préconise ne différerait en rien de l'alternance entre sociaux démocrates et démocrates sociaux qui fonctionne depuis des décennies.

Je ne m'intéresse pas au rapport que les politiciens, socialistes ou autres, entretiennent avec les autres commandements de la Loi, je leur pose seulement la question suivante : en matière économique et sociale ne devrait-on pas commencer par appliquer ceux qui s'énoncent simplement ainsi : "tu ne voleras pas", "tu ne désireras pas le bien d'autrui" et "tu ne mentiras pas".

JG Malliarakis

Apostilles

  1. Sa chronique écrite "Le fil rouge de l'opinion" ne manque pas d'intérêt et il faut la recommander.
  2. cf. "On ment pour avoir de la reprise médiatique": Jean-Daniel Lévy [de l’institut qui a réalisé le sondage, rappelle Libé] s’est déjà associé à des sondages qui se sont révélés totalement faux, mais qui ont bénéficié d’une reprise médiatique intense.
  3. Je me permets d'ailleurs de rappeler que dès le 27 novembre 2009, l'Insolent titrait sur "la redécouverte du risque souverain". (version vocale sur le site de Lumière 101).
  4. Rappelons que les "dynasties bourgeoises" que fustige Beau de Loménie sont nées de ce détournement de propriétés.

Vous pouvez entendre l'enregistrement de notre chronique
sur le site de Lumière 101

 

Puisque vous avez aimé l'Insolent Aidez-le par une contribution financière !

Du concept Strauss-Kahn et de sa régence annoncée

Du concept Strauss-Kahn et de sa régence annoncée

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

110311Sinistre pour le peuple grec, la cure d'austérité imposée par le FMI s'est déjà traduite par un taux de chômage de 13,1 % et une hausse des prix à la consommation évaluée à 4,9 %. On peut, certes, souhaiter qu'il en résulte, à moyen terme, un assainissement financier et une meilleure compétitivité. Paradoxalement ce drame offre au moins des avantages certains pour l'observateur étranger. Aux Français, il devrait faire comprendre ce qui les attend, à partir d'une situation très comparable, s'ils recourent aux mêmes médecins. On doit rappeler notamment que l'actuel premier ministre athénien, Georges Papandréou applique son programme, dicté par les petits hommes gris en étroite conformité de vues avec Dominique Strauss-Kahn, son camarade au sein de l'internationale socialiste, son ami.

 

Depuis plusieurs jours les lecteurs du journal grec Kathimerini (1) connaissent le contenu du documentaire "Un an avec DSK" que s'apprête à diffuser la chaîne Canal + (2), du moins pour la partie essentielle à leurs yeux.

Celle-ci révèle la manière dont, dès l'automne 2009, le recours au FMI a été convenu entre le gouvernement d'Athènes, qui à l'époque s'en défendait mensongèrement, et le directeur général de cet organisme. On peut penser que dans cette affaire très délicate, M. Papandréou et son ministre des Finances, jouant une partie difficile, ont évité le pire pour leur pays. Souhaitons que leur habileté ne se retourne pas contre leur propos. Il faudra se souvenir en revanche que le patron du FMI agissait subtilement mais sciemment, subrepticement, contre l'Europe.

DSK semble cependant, à l'évidence, très heureux de passer aux yeux des naïfs pour le "sauveur du capitalisme". Depuis son accession aux bureaux de Washington, il cherche à diffuser cette image. Et depuis quelques jours de calculs autour des sondages et de spéculations autour des hypothèses, il aimerait bien aussi passer pour le garant futur de notre démocratie qu'on dit gravement menacée par le populisme.

Le même journal Kathimerini ce 9 mars au matin titrait à nouveau sur les propos tenus par DSK dans le cadre de cette émission, destinée au public français. Traduisons, en attendant de l'entendre "en français dans le texte" : [En Grèce] "il existe des gens qui n'ont rien [pas de pain] à manger, et d'autres qui font de l'évasion fiscale un sport national". Le titre réduit encore plus "les uns souffrent, les autres fraudent". Car on veut confondre, on juxtapose sémantiquement, la fraude et l'évasion fiscales.

Souvent désinformés par des Grecs d'extrême gauche, je ne doute pas que trop de Français se représentent ainsi la réalité de la Grèce. Je ne chercherai pas à redresser leur opinion, car je n'y parviendrai pas. Mais je tiens à dire à mes amis lecteurs que je la tiens pour fausse.

En revanche, ils peuvent être certains que le même remède de cheval sera tantôt appliqué à la France.

Par exemple, Romano Prodi avait commencé à mettre en place cette doctrine, d'une façon relativement modérée, pendant la courte période où il revint de Bruxelles pour "redresser les finances italiennes" entre 2006 et 2008, avant le retour de Berlusconi.

DSK et Papandréou n'ont évidemment rien inventé. Ils ont simplement accentué cette pratique de la "rigueur de gauche", adossée elle-même aux craintes pour l'Union monétaire. Les questions budgétaires ne sont confondues pourtant avec l'ordre monétaire que pour mieux enfumer les opinions. Signalons ainsi que la coalition libérale-conservatrice au pouvoir en Grande-Bretagne redresse ses propres comptes publics par des réformes au moins aussi radicales, que celles adoptées par la Grèce, tout en restant en dehors de la zone euro et sans faire appel à DSK.

Mais voila, une partie non négligeable de l'Europe continentale, et pas seulement les gens de l'Europe du sud, veut la sociale-démocratie.

L'argument démagogique de la séparation entre "ceux qui souffrent" et "ceux qui fraudent" fonctionne comme une forme nouvelle de la vieille lutte des classes.

Il rencontrera l'assentiment de tous les coupeurs de têtes jacobins. La recette marche toujours. Faisons confiance aux gauchistes et aux staliniens du syndicat national unifié des impôts pour l'alimenter en informations partiales. Les gens d'Attac ou de la revue "Alternatives économiques" distilleront de faux arguments, adossés à leurs chiffres biaisés. Ils rencontreront sur ce terrain le soutien d'autres forces du même genre, Tous répercuteront les mêmes slogans destructeurs.

L'affaire dite "Bettencourt" n'a pas été agitée en vain pendant toute l'année 2010. Elle a bien chauffé à blanc l'opinion dans ce sens.

Donc DSK devient un concept "socialiste keynésien". Le PS pourrait presque se reconvertir en "PSK", un sigle à faire rêver. L'important n'est peut-être même plus de savoir si "il" se présente, mais quel candidat "il" adoubera. Tous les subventionnaires, tous les fonctionnaires, tous les médecins intéressés à maintenir le malade sous cloche vous le garantiront : les finances publiques ne souffrent pas de leurs gaspillages et de leurs prédations mais de recettes jugées insuffisantes du fait de la fraude, du fait des niches et des riches, du fait de leurs évasions, confondues avec autant de tricheries, du fait des exilés fiscaux dont on parle comme les robespierristes parlaient des émigrés, etc.

Confondant les effets et les causes, on cherchera à camoufler à l'opinion que la fraude et le travail au noir résultent d'abord d'une pression fiscale et de charges sociales trop élevées. On justifiera de la sorte non seulement le contrôle accru et le durcissement des contentieux mais également la hausse de tous les taux d'imposition, pendant 5 ans encore de 2012 à 2017. Pendant la même période les pays concurrents renforceront leur compétitivité.

Voila ce que l'on doit redouter autour du concept DSK. La gauche dure y voit un libéralisme camouflé. Elle se trompe. Une certaine droite y voit un subtil complice des grosses entreprises monopolistes qu'elle affectionne et qu'elle courtise elle-même. Elle s'égare dans sa propre myopie. D'autres s'apprêtent à développer des campagnes de réfutations ontologiques ou moralistes du personnage. Elles lui rendent service, lui conférant une dimension humaine, sympathique et même victimaire, et discréditant ceux qui les manient.

Il reste quelques mois pour cerner sérieusement le danger.

Ne comptons sur aucun état-major politicien. Tous raisonnent au fond comme les détenteurs brevetés du concept DSK. Ils s'apprêtent à l'imiter. Tous se complaisent, parfois inconsciemment, dans leurs logiques de prédateurs. (3)

C'est bien de ce cercle infernal qu'il s'agit de sortir.

JG Malliarakis
 

Apostilles

  1. "Kathimerini" est l'équivalent "Figaro", version un peu moins turcophile.
  2. Canal+ diffusera ce 13 mars un documentaire inédit sur DSK : "Un an avec Dominique Strauss-Kahn", au cœur du FMI.
  3. Celle que dénonce Bastiat sous le nom de "spoliations" dans ses "Harmonies sociales".

Puisque vous appréciez L'Insolent soutenez-le par une libre participation financière
Vous pouvez entendre l'enregistrement de notre chronique
sur le site de Lumière 101

 

vendredi, 18 mars 2011

Cheerleader "humanitärer Interventionen"

HByn7Vro_Pxgen_r_1100xA.jpg

Cheerleader „humanitärer Interventionen“

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Die Rollen sind einmal mehr klar verteilt: Hier der „verrückte“, „skrupellose“ Wüsten-Despot Gaddafi und sein raffgieriger Clan, und dort die hehren Rebellen, die den „Menschen in Libyen“ nichts anderes als Freiheit und Demokratie bringen wollen. Hier das Dunkel, dort das Licht. Diese manichäische Klippschulen-Hermeneutik verkünden westliche Politiker und Medien mit Blick auf die Vorgänge in Libyen rund um die Uhr.

Manches indes spricht dafür, daß es sich hier um eine Art Recycling der Kosovo-Kriegspropaganda handeln könnte, wo das „sogenannte Abendland“ nach den Worten des damaligen Außenministers Joschka Fischer für die „Menschenrechte eines muslimischen Volkes“ (komfortabel in Flugzeugen) gekämpft haben soll bzw. ein „neues Auschwitz“ zu verhindern suchte (Die Zeit, 16/1999). Es fehlt eigentlich nur noch, daß aus Gaddafi „Hitlers Wiedergänger“ wird. Mit dieser wohlfeilen Wendung stempelte einst Hans-Magnus Enzensberger Saddam Hussein zum Jabba the Hutt des Mittleren Ostens.

Kreuzzüge im Namen der „Humanität“

Ganz vorne dabei im Chor derer, die eine westliche Intervention in Libyen fordern – schließlich könnte Gaddafi wie weiland Saddam ja Giftgas einsetzen – steht mit Daniel Cohn-Bendit eine Figur, von der nicht bekannt ist, daß sie irgendeine militärische US-NATO-Intervention der letzten Jahrzehnte nicht befürwortet hätte.

Cohn-Bendit muß seinen Kopf schließlich nicht hinhalten, wenn es darum geht, die Kreuzzüge in Namen der „Humanität“ vor Ort durchzufechten. Politiker wie er geben lieber die „passiven cheerleader von US-NATO-Kriegen“, wie es der streitbare theoretische Physiker Jean Bricmont pointiert ausgedrückt hat. Cohn-Bendit hat jetzt für seine Forderungen einen einflußreichen Befürworter gefunden, nämlich Frankreichs Staatspräsident Sarkozy, der in Libyen gezielte Bombardements (für die Menschlichkeit?) durchführen lassen möchte. Noch findet er mit dieser Forderung keine Mehrheit.

Was nicht ist, kann indes noch werden, denn aus Sicht des Westens ist das Verschwinden Gaddafis mittlerweile eine Kardinalfrage; es kann nach all den humanitären Erregungs-Tsunamis der letzten Wochen keine Kooperation mit ihm mehr geben. Das nämlich ist, um ein Bonmot des oben bereits angesprochenen Jean Bricmont aufzunehmen, die Konsequenz eines „humanitären Imperialismus“, der ausschließlich mit moraltriefender Betroffenheit operiert und dies auch noch für Politik hält.

Folgen westlicher Interventionen

Diese Positionierung, lautstark vertreten vor allem von Politikern des linksliberalen bis linken Spektrums, konterkariert politische Lösungen, weil sie eben nur mehr eine Option zuläßt – alles andere wird als „Appeasement-Politik“ denunziert –, nämlich die der „humanitären Intervention“. Die Beispiele Afghanistan, Irak und letztlich auch der Kosovo – wo zwielichtige Figuren wie der einstige UÇK-Führer Hasim Thaci, jetzt kosovarischer Premierminister, mit westlicher Hilfe nach oben gespült wurden – zeigen aber, welch fragwürdige Folgen eine derartige Politik haben kann.

Dessenungeachtet stehen im Westen wieder alle Zeichen auf Intervention. Und man täusche sich nicht: Auch die Amerikaner, die sich bisher in dieser Frage bisher sehr bedeckt gehalten haben, werden wieder mitmischen, wenn auch – folgt man z. B. den Berichten von Robert Fisk, rühriger Korrespondent der britischen Zeitung Independent im Mittleren Osten – in einer eher indirekten Rolle. Laut seinen Recherchen sollen die Amerikaner Saudi-Arabien, das im übrigen mindestens so „despotisch“ regiert wird wie Libyen, gebeten (besser wohl aufgefordert) haben, die Aufständischen mit Waffen zu versorgen.

Erkenntnisse russischer Aufklärung

Interessant ist auch, was der von Moskau aus operierende internationale Nachrichtensender „Russia Today“ (RT) letzte Woche berichtete: Er behauptete nämlich, mit Hinweis auf Erkenntnisse der russischen Militäraufklärung, daß die immer wieder verurteilten Luftschläge gegen die libysche Zivilbevölkerung in der behaupteten Form gar nicht stattgefunden hätten.

In Rußland seien die Vorgänge in Libyen mit Hilfe moderner Aufklärungsmittel, wozu auch die Satellitenbeobachtung gehört, von Anfang an verfolgt worden. Nun mag man dies als russische Propaganda gegen den Westen abtun; möglicherweise aber hat dieser Bericht doch auch einen wahren Kern, und wir befinden uns mit Blick auf Libyen einmal mehr in einer „Schlacht der Lügen“.

Der GAU für den Westen

Die Interventionspropaganda gegen Libyen verfolgt ein ganz konkretes Ziel, nämlich den GAU aus der Sicht des Westens mit allen Mitteln zu verhindern. Der „worst case“ träte ein, wenn Gaddafi – dessen „unverzüglichen Rücktritt“ die EU am vergangenen Freitag forderte – an der Macht bliebe: Was passiert dann mit den Erdölressourcen des Landes?

Anfang März hatte Gaddafi in einer Rede bereits durchblicken lassen, daß er chinesische und indische Ölfirmen ermutigen werde, die Geschäfte der westlichen Ölfirmen zu übernehmen. Es steht kaum zu erwarten, daß der Westen, allen voran die USA, dabei zusehen werden, wie Gaddafi den libyschen Erdölkuchen an die neuen Emporkömmlinge aus Indien und China verteilt.

Japan-Folge: Ersatzteile werden knapp

Japan-Folge: Ersatzteile werden knapp

Udo Ulfkotte

Japanische Fahrzeuge, japanische Kopierer, japanische Fernseher, japanische Kameras – unser Leben wird maßgeblich von japanischen Geräten bestimmt. Doch jetzt sind viele Ersatzteillager und Fabriken zerstört, die Logistikketten unterbrochen. Japan ist die drittgrößte Volkswirtschaft der Welt. Japanische Ersatzteile werden jetzt teuer und knapp. Und sie müssen auf Radioaktivität hin untersucht werden.

Fast alle großen japanischen Fabriken sind auf absehbare Zeit geschlossen. In weiten Teilen des Landes ist der Strom rationiert. Das hat unmittelbare Folgen auch für jeden Europäer: Weil die Ersatzteillieferungen für in Japan produzierte Geräte nun bis auf Weiteres erst einmal ausfallen, können nur noch die geringen Bestände abverkauft werden, die es in europäischen Lagern gibt.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/enthuellungen/ud... 

jeudi, 17 mars 2011

"Operation Libya" und der Kampf ums Erdöl: Neuzeichnung der Landkarte Afrikas

»Operation Libya« und der Kampf ums Erdöl: Neuzeichnung der Landkarte Afrikas

Prof. Michel Chossudovsky

Die geopolitischen und wirtschaftlichen Auswirkungen eines militärischen Eingreifens seitens der USA und der NATO reichen weit. Libyen gehört mit etwa 3,5 Prozent der weltweiten Erdölreserven, die damit doppelt so groß wie die amerikanischen Lagerstätten sind, zu den führenden Erdöllieferanten der Welt. [Die Erdölwirtschaft liefert etwa 70 Prozent des BIP des Landes.] Operation Libya ist Teil einer umfassenderen militärischen Agenda für den Nahen und Mittleren Osten sowie Zentralasien, die darauf abzielt, die Kontrolle und Besitzrechte über mehr als 60 Prozent der Weltreserven von Erdöl und Erdgas, einschließlich der Erdgas- und Erdölpipelines, an sich zu reißen.

»Moslemische Länder wie Saudi-Arabien, der Irak, der Iran, Kuwait, die Vereinigten Arabischen Emirate, Katar, Jemen, Libyen, Ägypten, Nigeria, Algerien, Kasachstan, Aserbeidschan, Malaysia, Indonesien, Brunei verfügen abhängig von den Quellen und der Methode der Schätzungen über 66,2 bis 75,9 Prozent der gesamten Erdölreserven.« (Siehe dazu: Michel Chossudovsky, »The ›Demonization‹ of Muslims and the Battle for Oil«, in: Global Research, 4. Januar 2007.)

Mit 46,5 Mrd. Barrel (1 Barrel = 158,99 Liter) an nachgewiesenen Reserven (zehnmal mehr als Ägypten) ist Libyen die größte afrikanische Erdölwirtschaft, gefolgt von Nigeria und Algerien (Oil and Gas Journal). Im Gegensatz dazu werden die nachgewiesenen amerikanischen Erdölreserven nach Angaben der Behörde für Energieinformation mit etwa 20,6 Mrd. Barrel beziffert (Stand Dezember 2008, »U.S. Crude Oil, Natural Gas, and Natural Gas Liquids Reserves«).

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/pro...

 

mercredi, 16 mars 2011

Aufstand und militärisches Eingreifen - der versuchte Staatsstreich der USA und NATO in Libyen?

Aufstand und militärisches Eingreifen – der versuchte Staatsstreich der USA und NATO in Libyen?

Prof. Michel Chossudovsky

Die USA und die NATO unterstützen einen bewaffneten Aufstand im Osten Libyens in der Absicht, ein »Eingreifen aus humanitären Gründen« zu rechtfertigen.

Hier geht es nicht um eine gewaltfreie Protestbewegung wie in Ägypten oder Tunesien. Die Lage in Libyen ist grundsätzlich anders geartet. Der bewaffnete Aufstand im Osten Libyens wird direkt von ausländischen Mächten unterstützt. Dabei ist von Bedeutung, dass die Aufständischen in Bengasi sofort die rot-schwarz-grüne Flagge mit dem Halbmond und dem Stern hissten – die Flagge der Monarchie unter König Idris, die die Herrschaft der früheren Kolonialmächte symbolisiert.

Militärberater und Sondereinheiten der USA und der NATO befinden sich bereits vor Ort. Die Operation sollte eigentlich mit den Protestbewegungen in den benachbarten arabischen Staaten zusammenfallen. Der Öffentlichkeit sollte glauben gemacht werden, die Proteste hätten spontan von Tunesien und Ägypten auf Libyen übergegriffen.

Die Regierung Obama unterstützt derzeit in Abstimmung mit ihren Alliierten einen bewaffneten Aufstand, und zwar einen versuchten Staatsstreich:

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/pro...

Krieg um Wasser

Krieg um Wasser: Südliche Nil-Anrainer rationieren Wasser des Lebensstromes und pusten damit Ägyptens Lebenslichter aus

Udo Ulfkotte

 

carte-du-nil.jpgNiemals brechen Kriege völlig überraschend aus. Man muss nur die wirklich wichtigen Nachrichten analysieren, dann kann man ein wenig in die Zukunft blicken. Die wichtigste Nachricht für 83 Millionen Ägypter lautete in den vergangenen Wochen nicht etwa, dass Diktator Mubarak gestürzt wurde. Man kann mit oder ohne Diktator leben. Man kann ja auch mit oder ohne Öl leben. Aber man kann nicht ohne Wasser leben. Die südlichen Nil-Anrainer drehen den Ägyptern jetzt immer mehr das Wasser des Lebensstromes ab. Sechs Nil-Anrainer haben einen entsprechenden Vertrag geschlossen. Und Ägypten hat kein Veto-Recht. Das Leben entlang des Nils ist abhängig vom Wasser. Sobald das Wasser abgedreht wird, ist Krieg unausweichlich. Egal, ob mit Demokratie oder ohne.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

Que penser de la "vague Marine" et que faire?

Que penser de la "vague Marine" et que faire?

Pierre VIAL

marinelepen.jpgComme certains de nos camarades s’en font eux-mêmes l’écho (d’une façon éventuellement un peu naïve), de l’extrême gauche à l’extrême droite, en passant par toutes les nuances intermédiaires de l’arc en ciel politique, les récents sondages mettant en vedette Marine Le Pen suscitent émotion, indignation, jubilation selon les cas. Quand on a un peu d’expérience politique (dans mon cas, 53 ans de militantisme) on garde la tête froide et on essaie d’analyser la situation lucidement, sans préjugé inutile car inefficace puisqu’il brouille la capacité de jugement.

Faisons donc quatre constats :

1 - Quoi qu’on pense de Marine Le Pen, quant à sa personnalité, son entourage, ses idées (ou son manque d’idées, de convictions), il faut faire abstraction de tout cela, qui n’est connu et n’intéresse qu’un nombre très limité de personnes informées et ayant une conscience politico-idéologique bien assise. L’immense masse des gens qui s’apprêtent à voter Marine Le Pen s’en contrefichent. Ils ne voient qu’une chose (même s’ils prennent leurs désirs pour des réalités) : voter Marine Le Pen, plus encore que pour son père, c’est simplement affirmer son refus de l’immigration-invasion. C’est basique,  simpliste  et sans doute illusoire ? Oui. Mais c’est ainsi.

2 – C’est donc ce phénomène-là qu’il faut prendre en compte, parce que c’est une donnée objective. Au-delà de la personne de Marine Le Pen, celle-ci incarne aujourd’hui, que cela plaise ou non, un mouvement de fond national-populiste, qu’on voit se manifester un peu partout en Europe, et qui fournit une base humaine pouvant servir d’assise à une résistance identitaire. Dans quelles conditions, selon quelles modalités ? C’est à nous de travailler sur cette bonne question pour essayer d’apporter des réponses adaptées. Sans prétendre lire dans le marc de café… Il y a du pain sur la planche ? Bien sûr. Raison de plus pour retrousser les manches. Avec réalisme, détermination, ténacité. J’ai quelques idées sur le sujet.

3 – Notons un indice significatif : Chantal Brunel, députée UMP, assurant qu’il fallait « rassurer les Français sur toutes les migrations de populations qui viendraient de la Méditerranée », a préconisé : « Après tout, remettons-les dans les bateaux ». Elle a été désapprouvée, évidemment, par Jean-François Copé (soucieux de ne déplaire en rien à ceux qui l’ont installé là où il est). Mais mon petit doigt me dit que beaucoup de députés UMP sont venus lui dire discrètement à Chantal Brunel qu’elle avait raison. Des gens convertis au devoir de résistance ? Ne rêvons pas : ils ont surtout envie de conserver leur siège. Et savent bien que beaucoup de leurs électeurs en ont marre de l’immigration-invasion. Au point de voter Marine Le Pen ? Pourquoi pas ?

4 – Pour nous : tout ce qui fissure, ébranle, sape le Système en place est bon à prendre.  Le Diable marche avec nous…

Pierre Vial

mardi, 15 mars 2011

Die Welt spendet Beifall, während die CIA Libyen ins Chaos stürzt

phpThumb_generated_thumbnailjpg.jpg

Ex: http://helmutmueller.wordpress.com/

AbundantHope Deutschland hat einen ungewöhnlichen Beitrag aus Amerika über Libyen ins Netz gestellt, der es in sich hat. Ich finde ihn so interessant, daß ich ihn den Besuchern meines Blogs nicht vorenthalten möchte. Ich bringe ihn unkommentiert (und nicht korrigiert) und überlasse es jeden einzelnen Besucher, sich ein Bild zu machen.

 

Die Welt spendet Beifall, während die CIA Libyen ins Chaos stürzt.

Von David Rothscum   (Übersetzung Bernd)

Wie erging es Libyen unter der Herrschaft von Gadhafi? Wie schlecht ging es den Leuten? Wurden sie unterdrückt, so wie wir dies gewöhnlich als Tatsache annehmen? Schauen wir einen Augenblick auf die Tatsachen.

Bevor das Chaos ausbrach, hatte Libyen eine niedrigere Rate an Inhaftierten als die tschechische Republik. Sie rangierte auf Platz 61. Libyen hatte die niedrigste Kindersterblichkeit von ganz Afrika. Libyen hatte die höchste Lebenserwartung von ganz Afrika. Weniger als 5% der Bevölkerung waren unterernährt. Als Antwort auf die steigenden Nahrungsmittelpreise rund um die Welt, hatte die libysche Regierung alle Steuern auf Nahrungsmittel abgeschafft. Die Menschen in Libyen waren reich. Libyen hatte das höchste Brutto Inlandsprodukt beim Kaufkraftprodukt pro Kopf von ganz Afrika. Die Regierung trug Sorge, zu garantieren, dass jedermann im Land am Reichtum Teil hatte. Libyen hatte den höchsten menschlichen Entwicklungsindex aller Länder auf dem Kontinent. Der Reichtum wurde gleichmäßig verteilt. In Libyen lebte ein kleinerer Prozentsatz der Bevölkerung unterhalb der Armutsgrenze als in den Niederlanden.

Wie wurde Libyen so reich? Die Antwort ist Öl. Das Land hat eine Menge an Öl und erlaubt ausländischen Gesellschaften nicht, die Ressourcen zu stehlen, während die Bevölkerung verhungert, nicht wie Länder z. B. Nigeria, das im Wesentlichen von Shell geführt wird.

Wie jedes andere Land leidet Libyen unter einer Regierung mit korrupten Bürokraten, die versuchen, einen größeren Teil des Kuchens auf Kosten von allen anderen zu erhalten. Als Antwort darauf ordnete Gadhafi an, dass der Profit aus dem Ölgeschäft direkt an die Menschen verteilt werde, denn seiner Meinung nach ließ die Regierung die Bevölkerung im Stich. Jedoch ist Gadhafi nicht – so wie der Artikel behauptet – der Präsident Libyens. Tatsächlich hat er keine offizielle Position in der Regierung. Dies ist der große Fehler, den die Menschen machen. Sie behaupten, dass Gadhafi über Libyen herrscht, wo er doch tatsächlich dies nicht tut, seine Position ist mehr oder weniger repräsentativ. Er sollte mit einem Gründungsvater verglichen werden.

Der wahre Führer Libyens ist ein indirekt gewählter Premier Minister. Der  augenblickliche Premier Minister ist Baghdadi Mahmudi. Wenn man Gadhafi als Führer Libyens bezeichnet ist dies vergleichbar damit, Akihito als den Führer von Japan zu bezeichnen. Im Gegensatz zu dem was eure Medien darstellen, variieren die Meinungen in Libyen. Einige Leute unterstützen Gadhafi, wollen aber die Entfernung von Mahmudi. Andere wiederum wollen, dass beide entfernt werden.  Viele wollen einfach ihr Leben in Frieden leben. Jedoch werden Anstrengungen unternommen, den Anschein einer Volkserhebung gegen den vermuteten Führer Libyens, Gadhafi zu skizzieren, wobei dieser doch tatsächlich nur der Architekt von Libyens augenblicklichem politischen System ist, eine Mischung aus Pan Arabismus, Sozialismus und islamischer Regierung.

Videos von Pro Gadhafi Protesten verschwinden von Youtube während wir hier sprechen. Demonstrationen für Gadhafi und gegen Mahmudi sind von Youtube verschwunden. Demonstrationen für Gadhafi vor der libyschen Botschaft in London sind verschwunden. Youtube entfernt normalerweise jegliches Video das Blut zeigt, außer wenn es von Libyen kommt.

Offensichtlich werden die Zuschauer mehr durch Libyer traumatisiert, welche sich nicht auf die Seite derer schlagen, die auf die Straße gehen um Gadahfi zu entfernen , als durch zusammengeschlagene Körper.                                                                                                  Sind die Proteste in Libyen mit denen in Ägypten oder Tunesien zu vergleichen? Auf gar keinen Fall. Die Reaktion der Regierung ist gewalttätiger und offensichtlich wird von extremer Gewaltanwendung Gebrauch gemacht. Aber lasst uns doch einen Augenblick auf die Aktionen der Protestierenden schauen. Das Gebäude des Allgemeinen Volkskongresses, das Parlament von Libyen, wurde von den Protestierenden in Brand gesetzt. Dies ist vergleichbar mit der In Brand Setzung des Capitols der Vereinigten Staaten durch Protestierende. Denkt ihr, dass die Regierung der Vereinigten Staaten auch nur einen Augenblick untätig herumsitzen würde, wenn Protestierende das US Capitol in Brand stecken würden?

Die ausbrechenden Aufstände waren nicht die von weltlichen Jugendlichen, die Veränderungen wollen oder irgend etwas Ähnliches wie wir es in Ägypten oder Tunesien sahen. Eine Gruppe die sich selbst „Islamisches Emirat von Barka“ nennt – der frühere Name des Nord Westlichen Teils von Libyen – hat zahlreiche Geiseln genommen und zwei Polizisten getötet. Dies ist keine neue Entwicklung. Freitag, 18. Februar stahl diese Gruppe 70 Militär KfZ, nachdem sie einen Hafen angegriffen hatten und 4 Soldaten getötet hatten. Unglücklicherweise trat ein Oberst des Militärs dieser Gruppe bei und versorgte sie mit weiteren Waffen. Der Aufstand begann im östlichen Stadtteil von Bengasi. Der italienische Außenminister hat seine Furcht vor einem islamischen Emirat von Bengasi zum Ausdruck gebracht, das sich für unabhängig erklären könnte.

Also woher kommt dieser plötzliche Aufruhr? Die Antwort ist folgende: Die selben Gruppen die von den Vereinigten Staaten jahrzehntelang finanziell unterstütz wurden, sehen jetzt ihre Chance gekommen, Kontrolle über die Nation zu erlangen. Eine kürzlich in Libyen festgenommene Gruppe bestand aus Dutzenden von ausländischen Staatsangehörigen, die in zahlreiche Akte von Plünderung und Sabotage verwickelt waren. Die libysche Regierung konnte Verbindungen nach Israel nicht ausschließen. Großbritanien unterstützte eine Zelle von Al Kaida in Libyen finanziell für ein Attentat zur Ermordung von Gadhafi. Die hauptsächliche Oppositionsgruppe in Libyen ist augenblicklich die Nationale Front für die Errettung von Libyen. Diese Oppositionsgruppe wird von Saudi Arabien, der CIA und dem französischen Geheimdienst finanziell unterstützt. Diese Gruppe vereinigte sich selbst mit anderen Oppositionsgruppen , um zur Nationalen Konferenz für die Libysche Opposition zu werden. Gerade diese Organisation rief den „Tag der Wut“ aus, der Libyen am 17. Februar ins Chaos stürzte.

Sie tat dies in Bengasi, einer konservativen Stadt, die immer in Opposition zu Gadhafis Herrschaft stand. Es sollte noch angemerkt werden, dass die Nationale Front für die Errettung Libyens bestens bewaffnet ist. 1996 versuchte diese Gruppe eine Revolution im östlichen Teil Libyens zu entfachen. Sie benutzten die Libysche Nationale Armee, den bewaffneten Arm der NFSL, um diesen fehlgeschlagenen Aufstand zu beginnen. Warum stellen sich die Vereinigten Staaten so gegen Gadhafi? Er ist die hauptsächliche Bedrohung der amerikanischen Hegemonie in Afrika, weil er versuchte, den Kontinent gegen die Vereinigten Staaten zu vereinigen. Dieses Konzept wird die Vereinigten Staaten von Afrika genannt. Tatsächlich hat Gadhafi alle Arten von Ideen die  im Gegensatz zu den US Interessen stehen. Der Mann macht die Vereinigten Staaten verantwortlich für die Erschaffung von HIV, er behauptet, dass Israel hinter der Ermordung von Martin Luther King und von Präsident J.F. Kennedy steht. Er sagt, dass die Entführer des 11. September in den USA ausgebildet wurden. Er drängte auch die Libyer nach dem 11. September dazu, Blut für die Amerikaner zu spenden. Gadhafi ist auch der Letzte einer Generation gemäßigter Pan Arabischer sozialistischer Revolutionäre, die immer noch an der Macht sind, nachdem Nasser und Hussein ausgeschaltet wurden und Syrien sich mit dem Iran verbündet hat.

Die Vereinigten Staaten und Israel haben keinerlei Interesse an einer starken arabischen Welt. Tatsächlich scheint es das Wesentliche dieses Plans zu sein, Libyen durch Anarchie und Chaos auf die Knie zu zwingen. Ende 2010 stützte das Vereinigte Königreich die libysche Regierung immer noch durch lukrative Waffenverkäufe. Nichts garantiert die Zerstörung Libyens besser als ein blutiger Bürgerkrieg. Das Stammessystem ist immer noch stark in Libyen und erweist sich als nützlich, um einen solchen Krieg zu verwerten und zu erzeugen, da Libyen in der Geschichte in verschiedene Stammesgruppen aufgeteilt war. Dies ist auch der Grund, warum die libysche Regierung mit dem Import von Söldnern antwortet. Stammestreue geht vor Treue zur Regierung, besonders in Bengasi und somit hat die Zentralregierung keine Kontrolle mehr über den östlichen Teil des Landes. Die Alternative zu Söldnern ist ein Konflikt zwischen den verschiedenen ethnischen Gruppen.

Gadhafi  hat 41 Jahre lang versucht das Land homogener zu gestalten, aber Oppositionsgruppen, finanziell von äußeren Mächten unterstützt, werden wenig mehr als ein paar Tage benötigen, um das Land ins 19. Jahrhundert zurückzudrängen, wo diese Gegend von Europäern erobert und vereinigt wurde. Die Gewalt ist in der Tat extrem, aber jedermann scheint zu vergessen, dass diese Situation nicht die selbe ist wie in Tunesien oder Ägypten. Stammesverbindungen spielen eine größere Rolle und somit wird der Konflikt unglücklicherweise sehr viel blutiger werden.

Bitte erinnern Sie sich jederzeit daran, dass der gewalttätige libysche Bürgerkrieg, der sich jetzt entfaltet, nicht vergleichbar ist mit den Revolutionen, die man in Tunesien und Ägypten sah. Beide dieser Revolutionen schlossen friedliche Protestiere mit ein, die unter der Armut litten und gegen ihre korrupte Regierung waren. Das Chaos in Libyen besteht aus einer Mischung aus Stammeskonflikten, Konflikten über den Gewinn aus dem Öl ( da das meiste Öl sich im Osten des Landes befindet), radikalen Islamisten die in Opposition zu Gadhafis Regierungssystem stehen und äußerer Destabilisierung durch vom Westen finanzierte Exil Gruppen.                                                   

Gadhafi übernahm vor 41 Jahren die Kontrolle von einem kranken Monarchen der sich krankheitsbedingt auswärts aufhielt in einem unblutigen Staatsstreich. Seine Ideologie basiert auf der Vereinigung und er versuchte sein Land auf friedlichem Wege mit Syrien und Ägypten zu vereinigen. Es würde eines Wunders bedürfen, um die sich jetzt entfaltende Gewalt in eine stabile demokratische Regierung in Libyen münden zu lassen, mit voller Kontrolle über das gesamte Land. Das Land ist zwei Mal so groß wie Pakistan aber mit 6 Millionen Einwohnern. Endlose Wüsten trennen die Städte dieser Nation. Was wir uns auch immer wieder fragen sollten, ist, wie viele weitere Nationen werden in den kommenden Monaten in Stücke zerschlagen, bei denen die Welt Beifall klatscht?

lundi, 14 mars 2011

Die schwerwiegendsten Fehler der EU

commission-europeenne.jpg

Betreff: [infokreis] „Agrippa“ über die EU

Lesenswerte Ausführungen des umtriebigen rechten Foren-Schreibers „Agrippa“ über die EU:

Regiomontanus hat geschrieben: Worin liegen für dich die schwerwiegendsten Fehler der EU? Und wie stellst du dir eine ideale Union der europäischen Völker vor?

Antwort von Agrippa:

Zuerst einmal basiert die EU auf nichts eigentlich Europäischem. Es gab in den 80ern und frühen 90ern die Anspielung auf Karl d. Großen und das fränkische Reich, eine an sich sinnvolle Überlegung, wenn man sich den Kern Europas heute ansieht.

Aber solche Versuche, an eine bestehende europäische Tradition wieder anzuschließen, wurden sofort von Linken und Juden v.a. zertrümmert und dann schrittweise und immer stärker durch eine Idee erstickt, die man in einem Satz zusammenfassen kann: ein vereintes Europa ohne Europäer und ohne europäische Werte, ein bloßes Instrument der Plutokratie und ein Katalysator für die Ausbreitung des Neoliberalismus in Europa und der Welt.

Meiner Ansicht nach sollte zuerst einmal wieder die Eingrenzung auf das erfolgen, was Europa eigentlich ist und wer wirklich Europäer ist.

Europäer sind die europäischen Europiden biologisch, Menschen die auf einer christlichen Kultur aufbauen und aufgeklärt sind, die zum Staat und zum Laizismus stehen, die, die Gemeinschaften und Traditionen Europas verbinden.

Zu diesem Begriff eines Europäers in Abstammung, Kultur, Mentalität und Gemeinschaft muß man wieder zurückfinden. Auch zu einer neuen Wertschätzung der eigenen Nation und der nationalen Traditionen.

Die EU dient als Instrument, die europäischen Interessen in der Welt zu vertreten und die progressiven, sinnvollen und notwendigen Entwicklungen weltweit in allen entscheidenden Bereichen voranzutreiben. Das ist der Zweck der EU, oder sollte es zumindest sein, nicht Abladeplatz für ungezählte Massen von Nichteuropäern, nicht bloßes Instrument des Globalkapitals und Struktur, die nur zur Umerziehung der Europäer im neoliberalen oder linksliberalen Sinne dient.

Gemeinsame:
- Wirtschafts- und Außenpolitik
- Gemeinsame Verteidigung
- soziale und ökologische Standards
- Finanzpolitik und Steuerharmonisierung
- Projekte und Richtlinien, um die Erhaltung und Höherentwicklung von Individuen, Kollektiv, Spezies und Ökosystem voranzutreiben
- Maßnahmen gegen Immigration von nicht-integrationsfähigen Außereuropäern
- Programme für die Erhaltung der Population, eugenische Programme, um der modernen Kontraselektion Einhalt zu gebieten
- Familien- und Gemeinschaftspolitik im Sinne der langfristigen Erhaltung und Höherentwicklung
- Außengrenzensicherung
- Schutzmaßnahmen für die europäischen Interessen


National:
- Zusammenschlüsse der wesentlichen ethnischen und kulturellen Großgruppen
- Erhaltung der eigenen Tradtionen und Pflege der Kultur
- keine wilde und forcierte Durchmischung in Europa, aber auch keine totale Abgrenzung der Nationen (individuelle Entscheidung)
- kollektivistische Erziehung im Sinne von Nation, Europa und Ökosystem
- Kontrollbehörden für die nationalen Wirtschaftskreisläufe und Betriebe.

Was ich ablehne ist:
- Familiendestruktion, männer- und kinderfeindliche Strukturen und Gesetze
- Radikale Emanzipation, Hyperfeminismus, falsche Verbreitung weiblicher Rollenbilder und Lebenskonzepte
- Wirtschaftsliberalismus, destruktive Tendenzen in den Aktienmärkten, Großspekulation und zu großen Einfluß von Wirtschaftskräften auf die Poltik
- Zerstörung der sozialen Netze, Sozialabbau, Entsolidarisierung
- Unterlaufen von ökologischen Standards und Zerstörung der Umwelt und Ressourcenverschwendung in Europa und Förderung von selbigem im Ausland
- Negierung und Verächtlichmachen der lokalen Gemeinschaften und Kulturen
- übertriebener Minoritätenschutz, v.a. von nichteuropäischen (Integration bis zur Assimilation oder Ausweisung) und anomalen Gruppen, keine Bevorzugung selbiger, keine Toleranzerziehung für Gruppen, die nicht als gesund und normal im Sinne der Gemeinschaft angesehen werden können (z.B. Homosexuelle)
- keine Zuwanderung von nicht integrationsfähigen oder -willigen Individuen, egal unter welchem Etikett sie versuchen, in Europa einzusickern.

In kleinen Zahlen können Spezialisten und besonders wertvolle Individuen anderer Gruppen falls benötigt eingelassen werden, Massenzuwanderung ist prinzipiell abzulehnen.
Falls in stärkerem Ausmaß Zuwanderer gebraucht würden nur nach einem strengen Ausleseverfahren von besonders nahe verwandten Gruppen und hochqualifizierte Individuen.

- kein Rückzug des Staates aus dem Wirtschaftsleben, Kontrolle der Wirtschaft im Sinne des Kollektivs, jedoch unter Beibehaltung der Spielregeln des Kapitalismus, einmischen nur dort wo erforderlich, aber deutlich und ohne Hemmung
- keine Förderung des Freihandels OHNE INTERNATIONALE STANDARDS!
- GATT revidieren, neu verhandeln und korrigieren.
- GATS zurückweisen
- selbständige von den USA gelöste Politik
- Umerziehung in den Medien, Erziehungs- und Bildungswesen, keine Erziehung zu Egoisten mit individualistischen Lebenskonzepten, keine fortgesetzte Vermittlung von Egalitätswahn und „deutscher oder europäischer Schuldkomplexe“.
- ein Ende falscher Lobbypolitik und ineffizienter wie korrupter Verwaltung in Brüssel
- keine Kopie der USA anstreben
- ein Ende der Verfolgung von national gesinnten und idealistischen Menschen unter dem Joch der Medien- und Meinungsdiktatur
- die Gleichmacherei - es muß der Unterschied zwischen den Menschen erkannt und benannt werden, es gibt eben physische und psychische Unterschiede, die Menschen sind weder gleich noch gleichwertig (damit meine ich jetzt nicht unbedingt irgendetwas in Bezug auf Rasse etc.)
Deshalb sollte auch das Bildungs- und Förderungssystem diesen Unterschieden Rechnung tragen und nicht versuchen, alle Menschen als „gleich“ darzustellen.
- keine Zerstörung traditioneller Moral und Förderung von freier Sexualität und Perversionen.
- keine Förderung destruktiver Kunst und Amoral in den Medien und am Kunstmarkt etc.

Da gäbe es noch viel, sehr viel ... all das fördert die EU und ihre Tentakel überall und zu jeder Zeit!
Solange die EU dies tut, ist sie ein Monstrum, eine Mißgeburt und ein Werkzeug der Plutokraten und Liberalen.

Entweder sie ändert sich oder muß um jeden Preis zersprengt werden.
Ansonsten wird es in 3 Generationen kein Europa, wie es einmal war, mehr geben, sondern nur ein fraktioniertes und degradiertes Albtraumland.

http://www.politik-forum.at/warum-ist-osterreich-immernoc...


mercredi, 09 mars 2011

Tancrède Josseran: "L'AKP veut faire de l'islam le ciment du futur pacte social"

tuerkischer-soldat-bei-angriff-kurdischer-rebellen-getoetet-471732_400_0.jpg

Tancrède Josseran : "L'AKP veut faire de l'Islam le ciment du futur pacte social"

 

Tancrède Josseran, Directeur de l’Observatoire du monde turc et des relations euro-turques, chercheur en géopolitique et auteur de La nouvelle puissance turque - L'adieu à Mustapha Kemal répond aux questions de Scripto.

Tancrède Josseran l'affirme: aujourd'hui déjà et peut-être demain plus encore la Turquie sera une grande puissance avec laquelle il faudra compter.

Entretien réalisé par Maurice Gendre


 

*

Quels sont les éléments qui ont favorisé une réislamisation de la Turquie ?

La fin de la Seconde guerre mondiale laisse la Turquie dans une situation difficile. Dés le Printemps 1945, Ankara doit faire face à des revendications soviétiques. Moscou exige une révision du régime des détroits et la restitution des vilayets orientaux de Kars et Ardahan. Vestige de l’Europe autoritaire des années trente, l’Etat kémaliste, en raison de sa prudente neutralité lors du conflit, est très isolé.

Accablés par la menace soviétique, les dirigeants turcs comprennent qu’ils sont condamnés à faire des concessions. Exigé par les Alliés lors de la Conférence de San Francisco, le passage du parti unique au multipartisme entérine une rupture avec le volontarisme républicain des origines. Une cassure qui marque une régression du mouvement de laïcisation du pays. Dés lors, suivant la logique de l’alternance, les forces politiques et religieuses que l’on croyait annihilées par vingt-cinq ans d’autoritarisme, ressurgissent comme si de rien n’était.

En 1950, le Parti Démocrate arrive au pouvoir. Ces dirigeants, Celal Bayard, Adnan Menderes, bien qu’issus du sérail républicain, savent parfaitement exploiter le sentiment d’exaspération de la population envers une élite bureaucratico-militaire engoncée dans ses privilèges et à la rhétorique abstraite. Critiquant l’absence de libertés et la place disproportionnée de l’Etat, les dirigeants démocrates bâtissent une synthèse où libéralisme politique, économique et religieux s’alimentent réciproquement. Cette formule demeure plus d’un demi-siècle une constante des partis de droite libéralo-conservateurs ou religieux en Turquie. Le multipartisme a fait de l’islam un enjeu électoral. Les partis conservateurs et islamistes ont su parler la même langue que le peuple, d’où leurs succès.

Par ailleurs, dans un contexte de guerre froide, l’islam sert de ciment à l’unité nationale. Ce processus est encouragé par l’ensemble de l’arc politique, désireux d’allumer des contre feux contre le péril rouge. Ainsi, très paradoxalement, c’est l’armée qui après le coup de force du 12 septembre 1980, réintègre l’islam  dans le continuum de l’histoire nationale.

Selon, la synthèse islamo-nationaliste, la religion est l’essence de la culture et  la culture est imprégnée par la religion. L’islam a transcendé la culture turque qui sans lui aurait dépéri ; et inversement, la civilisation turque a sauvegardé la foi du Prophète qui sans elle aurait disparu sous les coups de boutoir des croisés au XI siècle. A la différence de l’islam politique, l’islam promu par l’armée est un moyen, non une fin en soi. Il s’agit d’enraciner des valeurs nationales et conservatrices : la famille, l’armée, la mosquée pour barrer la route à la subversion gauchiste.

Cruel dilemme, les militaires prennent le risque d’asseoir le nouvel « Etat national » sur la base de forces religieuses qui immanquablement chercheront à un moment ou un autre à s’émanciper. L’Etat ayant pris comme référent identitaire la religion, il est en somme naturel que le parti le plus proche de ses aspirations apparaisse à un moment ou à un autre comme un recours et s’impose comme force prépondérante.

De plus, le fonctionnement même du système laïc turc est équivoque dans la mesure où il autorise une certaine forme de prosélytisme. Il s’agit d’une laïcité concordataire. Il n’existe pas stricto sensu de séparation entre l’Etat et la mosquée. Au contraire, la mosquée est encasernée par l’Etat à travers le Ministère des cultes, le Dinayet. Les desservants des cultes obéissent aux règles de la fonction publique. Seule l’Islam sunnite de rite hannafite est reconnu à l’exclusion des autres branches de l’islam turc comme l’alévisme (branche hétérodoxe du chiisme). Le sermon est prononcé au nom de la République. Dans la constitution (article 24) est inscrite l’obligation des cours de religion dans le cursus scolaire.

Mais la réislamisation ne peut se comprendre, si l’on fait abstraction des bouleversements de la société turque. A partir de 1950, la mécanisation de l’agriculture et le début de l’industrialisation provoquent un mouvement d’exode rural. Ces mouvements migratoires entraînent un changement radical du substrat de population mais  aussi des implications politiques. Ils concourent à bouleverser le kémalisme institutionnel. Jusqu’à cette date, l’appareil d’Etat était encore largement dominé par les héritiers de la bureaucratie ottomane souvent originaire des Balkans.

Faute de réelle politique urbaine, les migrants squattent les terrains vagues disponibles. Ils y vivent en toute illégalité dans un habitat précaire ou gecekondu (maison construite la nuit). Dans les années 1980, 70% de la population d’Ankara vivait dans des bidonvilles. Cette proportion atteint 55% à Istanbul, Izmir, Adana. Le conflit qui éclate dans le Sud-Est de l’Anatolie en 1984 amplifie l’exode rural. En quête de normalisation et d’accès aux services, les habitants de ces quartiers deviennent un enjeu électoral déterminant pour les partis politiques religieux ou conservateurs.

A ce stade, les nouveaux arrivants se raccrochent à l’islam comme fil conducteur de leur vie de tous les jours. Pour celui qui se demande d’où il vient et qui il est, la religion apporte une consolation et une assurance sur les fins dernières. Les croyants forment de petites communautés sociales identiques à celles que l’exode rural a fait disparaître. La mosquée offre aux nouveaux arrivants un point de repère. Entre 1973 et 1999, le nombre de mosquée passe de 45 000 à 75 000. La religion donne à ces déclassés une identité propre et des certitudes dans un monde en proie aux distorsions sociales et économiques.

Quel événement ou quel phénomène provoqua le basculement décisif vers l’islam ?

En Turquie, les élites au pouvoir depuis 1923 sont le fruit d’un processus révolutionnaire et non le produit d’un consensus global. L’Etat kémaliste s’est construit au corps défendant de la société et celle-ci ne s’est jamais identifiée à ses élites perçues  comme lointaines, impies, étrangères. La grande crainte des cercles laïcs et militaires a toujours été de voir la société s’émanciper de la tutelle étatique pour acquérir les moyens d’engendrer ses propres élites en dehors du cadre républicain.

A ses débuts, la République turque s’oriente résolument vers une économie dirigiste. Ce volontarisme se traduit par une politique autarcique de substitution des exportations. A la fin des années 70, ce modèle commence à montrer des signes d’essoufflement. Le pays est au bord de la banqueroute. L’Etat turc ne peut plus honorer ses créanciers. La livre perd la moitié de sa valeur. L’inflation explose et atteint les 120%.

Cette crise débouche en septembre 1980 sur le coup d’Etat militaire. En échange du rééchelonnement de la dette extérieure et d’un apport en argent frais, la junte au pouvoir s’engage à ouvrir les frontières, libéraliser les prix, geler les salaires, laisser flotter les taux d’intérêt. La victoire inattendue de Türgüt Özal en 1983 à l’occasion des premières élections libres, s’apparente à un vote sanction. Prisonnier du « politique d’abord », les militaires turcs ne comprennent pas tout de suite que le libéralisme économique dont se prévaut avec leur appui le nouveau Premier ministre, ne pourra un jour manquer de se manifester de manière politique. Proche de la confrérie des Nakshibendis et lié à la finance islamique, Özal regroupe avec l’appui discret des confréries autour du Parti de la mère patrie, l’essentiel de la droite turque. Ses différents mandats sont marqués par une ouverture sans précédent au marché mondial, à la concurrence et à son cortège de déréglementations.

Le développement d’un tissu dynamique de PMI-PME est le premier objectif de la politique d’Özal. Appelés communément les « Tigres anatoliens », ces nouveaux entrepreneurs jouent un rôle déterminant dans l’ouverture à la mondialisation de nombreuses villes d’Anatolie. Les relations étroites que ces entrepreneurs généralement liés à des groupes confrériques entretiennent avec les pétromonarchies du Golfe, permettent l’afflux de capitaux. Ces nouveaux acteurs rassemblent des entrepreneurs du BTP, des restaurateurs, des artisans commerçants.

Beaucoup de ces entreprises sont familiales et maintiennent d’autant plus activement des valeurs conservatrices et paternalistes. Cette petite bourgeoisie trouve dans l’éthique religieuse la confiance nécessaire pour affronter la concurrence des lourds conglomérats du patronat laïc. Les associations d’entrepreneurs musulmans à l’exemple du MÜSIAD, offrent à leurs membres un réseau efficace qui leur permet de peser de manière concertée sur les pouvoirs publics. L’émergence d’une bourgeoisie anatolienne a progressivement constitué un contrepoids à l’alliance traditionnelle entre l’Etat et le capitalisme classique d’Istanbul.

Loin de se laisser absorber par le maelström urbain, les migrants ayant réussi en ville ont maintenu de solides liens avec leurs villes ou leurs villages d’origine. Pris en charge par des foyers étudiants Nurcu ou Nakshibendis à l’occasion de leurs études universitaires, les nouveaux entrepreneurs ont intériorisé une très forte conscience religieuse très éloignée du seul conformisme social. Ces élites sont conscientes d’être musulmanes parce qu’elles choisissent délibérément de vivre, travailler, en accord avec leur conception profonde du monde.

Dans ce processus, les ordres soufis ont fonctionné comme des réseaux informels. La croissance économique des années 1980 transforme les classiques réseaux religieux en un instrument de mobilité sociale. En dehors des instances gouvernementales, c’est une véritable alter-société qui se met en place.

L’islam social contourne la laïcité et libère l’expression publique de convictions qui jusqu’alors restaient confinées dans la sphère du privé. Les fondations religieuses investissent les domaines profanes. Grâce à l’apport en capital de la bourgeoisie islamiste, des maisons d’édition sont crées, des journaux édités, des chaînes de TV et de radio voient le jour. Situé hors de la tutelle étatique, ces médias permettent l’éclosion d’une nouvelle génération d’intellectuels musulmans et l’émergence d’une véritable contre-culture de masse. De proche en proche, les modes de vie et de pensée se modifient et c’est toute la société qui au final se reconstruit sur des valeurs religieuses.

En 1996, le Parti de la Prospérité de Necemettin Erbakan arrive au pouvoir. La formation islamiste opte pour une stratégie de rupture globale avec l’ordre établi comme la levée de l’interdiction du port du voile. Dans le domaine de la politique étrangère, Erbakan très hostile à Bruxelles qu’il considère comme un club chrétien, tourne le dos à l’Union européenne avec l’idée de lui substituer un marché commun musulman dont la Turquie serait le point de ralliement. Rapidement, la situation se tend avec l’armée et les élites traditionnelles. Autant pour des raisons de pouvoir que d’idéologie, l’armée intervient le 28 février 1997 via le Conseil national de sécurité. Le Conseil accule Erbakan par une série de recommandations à la démission.

L’intermède gouvernemental du Refah va amener l’aile réformatrice du parti à repenser les termes et les moyens de l’action politique. Un constat s’impose, la rupture a échoué. Le parti islamiste dénué d’appui et condamné à la stratégie du seul contre tous s’est retrouvé totalement marginalisé aussi bien sur la scène nationale qu’internationale.

Parmi les jeunes rénovateurs, un homme se distingue, il s’agit de Recep Tayip Erdogan. Diplômé d’un lycée d’imams et économiste de formation, il est élu maire d’Istanbul en 1994. Plébiscité pour sa gestion d’Istanbul. Erdogan crée en 2001 le Parti de la Justice et du développement (Adalet Kalkinma partisi-AKP).

Rejetant l’opposition frontale, Erdogan opte pour une ligne réformiste d’apaisement, il élude du programme les aspects les plus polémiques. Refusant le qualificatif d’islamiste, il définit son mouvement comme fondé sur une approche «  démocrate et conservatrice ». Le parti prône l’intégration à l’Union Européenne, l’économie de marché et la défense des valeurs traditionnelles, synonyme habile pour désigner l’islam.

La victoire de l’AKP en 2002 (34%) révèle le vote sanction d’une population turque exaspérée par les scandales politico-financiers à répétition d’une élite occidentalisée coupée du pays. Profitant de l’effondrement des partis de centre droit qui avaient fixé des années 1950 à 1990 l’électorat conservateur et musulman, c’est toute la droite turque qui se retrouve rassemblée sous la baguette de l’AKP.

Le recours à des intermédiaires choisis en dehors de la mouvance islamiste, patronat occidentalisé, intellectuels libéraux, Etats-Unis, Union Européenne, explique la réussite d’Erdogan.

Peut-on parler d’une politique néo-ottomane ?

Le grand architecte de la politique étrangère de la Turquie est Ahmet Davutoglu. Longtemps conseiller diplomatique d’Erdogan, il occupe depuis 2009 le poste de ministre des Affaires étrangères. Davutoglu défend une approche civilisationnelle des relations internationales. La Turquie appartient hiérarchiquement à trois ensembles distincts :

-Le monde musulman au sud.

-L’Eurasie à l’Est

-L’Occident à l’Ouest.

Le retard pris à tous points de vue par le monde musulman est une préoccupation récurrente de ses écrits. La Turquie est l’éclaireur du monde islamique sur les routes de la mondialisation. Davutoglu ne rejette pas l’orientation vers l’Occident mais les autres options ne doivent pas être sacrifiées à son seul bénéfice. De Sarajevo à Bagdad en passant par Istanbul et Grozny, une même communion d’âme existe : l’Islam et le souvenir de l’Empire ottoman. A la tête du monde islamique écrit Davutoglu dans son ouvrage majeur, Stratejik derinlik (Profondeur stratégique) :

« Le califat représente l’union politique et spirituelle…où les limites intérieures entre les communautés  n’existent pas et où les communautés musulmanes au-delà des frontières sont sous la responsabilité de l’Etat ottoman ».

Une lobotomie culturelle a fait perdre à la Turquie son identité profonde. Un retour dans la trajectoire du monde islamique s’impose. Emprisonnée derrière les barreaux étroits de
l’Etat-nation, Ankara est condamnée à renouer avec son environnement culturel et historique. Seulement à cette condition expresse elle sera capable de tirer le meilleur parti de la mondialisation.

Pour Davututoglu : « La guerre froide avec son statisme obligatoire formait un obstacle au développement de la profondeur géographique et historique. Avec sa fin, les facteurs géopolitiques, économiques, culturelles sont revenus sur le devant de la scène et influencent les relations internationales. L’exemple des Balkans démontre que la guerre froide n’a caché qu’un cour moment le chaos inhérent à la région ».

Ce néo-ottomanisme entre en collision avec les conceptions traditionnelles de la République : « Paix dans le monde, paix dans le pays ». Se contenter du statu quo d’une politique isolationniste serait dans l’esprit du Ministre assigner la Turquie à un rôle périphérique, la rendant otage des luttes entre puissance terrestre et maritime. La Turquie est la future puissance centrale, nouvel empire du milieu aux convergences des routes Nord-Sud.

Avec quels autres pays la Turquie entretient-elle les meilleurs rapports ? Et les plus mauvais ?

Opposé à la guerre en Irak, Davutoglu milite en faveur d’une politique étrangère garante des intérêts nationaux. Il ne s’agit plus uniquement de servir de relais à la politique de Washington et de l’OTAN dans la région :

-          La Turquie en raison de son emplacement est apte à jouer un rôle de médiateur. En assumant, son passé ottoman et sa stature de grande puissance islamique, Ankara veut créer un environnement propice à une redéfinition des rapports de force au Moyen-Orient.

-          En se présentant comme la sentinelle des routes énergétiques dans la région (Mer Noire, Caucase, Bosphore, Mer Egée) Ankara ambitionne de devenir un collecteur énergétique. Point de passage obligé des pipelines et gazoducs (Blue stream, Nabucco, BTC)  reliant les bassins producteurs d’Asie Centrale, de la Caspienne et les bassins consommateurs de l’ouest.

-          En dernier lieu, la Turquie estime qu’elle est en raison de sa capacité à concilier foi, démocratie et économie de marché, la mieux à même de proposer un modèle pour les Etats de la région. Ce projet d’islam modéré est sous tendu par le constat que face à des systèmes de gouvernement autoritaire discrédités et d’élites laïques en perte de vitesse (Egypte, Tunisie, Algérie), une démocratie musulmane aux solides assises sociales est l’antidote idéal contre le terrorisme djihadiste.

Hâtivement taxée d’antiaméricaine par certains observateurs, les orientations stratégiques de Davutoglu sont moins manichéennes. Le fait que la Turquie puisse s’affranchir ponctuellement de la tutelle américaine n’est pas forcément nuisible. La Turquie est ainsi plus écoutée ; elle devient à la fois une porte ouverte sur l’ouest et un exemple à suivre. En somme, les Etats-Unis devraient encourager la société turque dans ses mutations et, sans interférer, laisser Ankara par le dialogue attirer l’ensemble des pays de la région dans son sillage. Le récent rapprochement turco-syrien peut amener Damas à ouvrir des pourparlers de paix avec Israël mais aussi le régime baasiste à évoluer de l’intérieur.

Cependant, cette politique multidirectionnelle à des revers. La volonté d’être présent partout comme le prouve l’ouverture de nombreuses représentations dans les pays d’Afrique noire entraîne une dispersion des moyens. D’autre part, Davutoglu est perçu par nombre d’observateurs comme un hyperactif, faisant des déclarations à l’emporte pièce d’un pays à l’autre dans le seul but de satisfaire l’interlocuteur du moment.

Deux pays illustrent parfaitement la nouvelle donne diplomatique  turque : Israël et l’Iran.

-          Depuis le début des années 2000, une dégradation sensible des relations entre Tel-Aviv et Ankara et perceptible. Ce relâchement s’explique par la volonté turque d’apparaître comme une puissance islamique crédible aux yeux de la rue arabe. D’autant que depuis 2004, la Turquie préside l’Organisation de la Conférence Islamique. En raison de son rapprochement avec la Syrie, Israël a perdu de son importance stratégique pour Ankara. Jusqu’alors, elle faisait office d’alliance de revers contre Damas.  Néanmoins, l’AKP a conscience des lignes rouges à ne pas dépasser. Le fait d’entretenir des relations « civilisées » avec Israël est un formidable passeport de respectabilité pour des islamistes qui ne se privent pas de le rappeler continuellement aux Occidentaux. Dépourvu de lobby puissant aux Etats-Unis au contraire des Grecs et des Arméniens, les Turcs sont obligés de recourir aux groupes de pressions pro-israélien au Congrès pour contrecarrer les résolutions visant à reconnaître le génocide arménien. L’unicité de la Shoah est souvent mise en avant pour justifier ces positions.

-          Inversement, les rapports entre la Turquie et l’Iran se sont considérablement améliorés. Malgré les vives réserves émises par les Etats-Unis, les deux pays oeuvrent depuis 2007 à la constitution d’un partenariat énergétique. Un oléoduc reliant les réserves de gaz et d’hydrocarbures de la Caspienne est en passe de matérialiser ce projet. Face au jeu trouble de Washington qui instrumentalise les factions kurdes, Ankara et Téhéran développent une intense coopération dans la lutte contre le terrorisme. Cette politique a trouvé son aboutissement dans l’accord tripartite Iran /Brésil/ Turquie en juin 2010 au sujet du nucléaire. Toutefois, la propension de Davutoglu à ménager systématiquement Téhéran en refusant le vote de nouvelles sanctions aux Nations-Unies, soulève des interrogations jusque dans les couloirs du ministère des affaires étrangères à Ankara. Traditionnellement issus des élites occidentalisées, le corps diplomatique turc estime être instrumentalisé par Téhéran dans l’espoir  de gagner du temps. En outre, l’acquisition de capacité nucléaire civile, puis militaire obligerait Ankara à moyen ou long terme à marcher sur les brisées des Iraniens.

Quelles sont les principales lignes de fractures idéologiques, ethniques, confessionnelles qui traversent le pays ?

La chape uniformisatrice et égalisatrice de la République turque dissimule quelques 47 groupes minoritaires aux dénominateurs identitaires très variés (ethniques, religieux, linguistiques). Pourtant, les seules minorités que l’Etat turc reconnaisse officiellement sont celles inscrites dans le traité de Lausanne de 1923 (grecque, juive, arménienne). Si l’on reprend la définition retenue par les Nations Unies et admise par l’UE, la Turquie compterait entre quinze à vingt millions de Kurdes, douze à vingt millions d’Alévis (chiites duodécimains), plusieurs millions de Turcs originaires de l’ancien espace ottoman (Tcherkesses, Bosniaques, Bulgares, Albanais, Abkhazes, Arabes, Circassiens), quelques centaines de milliers de minoritaires chrétiens (Arméniens, Grecs orthodoxes, Assyro-chaldéens, protestants). Ce qui inquiète l’establishment militaro-laïc dans ce genre de recension, c’est qu’en définitive, les minoritaires rassembleraient entre 32 et 45 millions d’individus sur les 74 millions d’habitants du pays. Dans cette situation, les Turcs sunnites, c’est-à-dire le reste de la population, se retrouveraient dans une situation précaire  à l’image des Serbes de Yougoslavie ou des Arabes sunnites d’Irak.

Outre les clivages ethniques et religieux, il existe des clivages sociaux-culturelles. La Turquie est un pays Janus. A l’instar du dieu romain, elle regarde dans deux directions opposées. Ce dualisme se répercute dans la population. Jusqu’à une époque récente les strates supérieures de la société étaient dominées par les Turcs blancs. Ils reflètent l’homme nouveau appelé par Kemal : laïque, progressiste. Les Turcs noirs en revanche sont à l’image du pays réel, plus pauvres, plus croyants, plus conservateurs, plus nombreux.

Tant que les Turcs noirs restaient confinés au bas de la hiérarchie sociale, le pouvoir des élites occidentalisées n’était pas véritablement menacé. Tout à changé lorsque l’Etat, en retirant son emprise de la sphère économique, a libéré les énergies et a permis à ceux qui se trouvaient au bas de l’échelle sociale d’escalader un à un les barreaux. Sans difficulté, les Turcs noirs plébiscitent cette nouvelle élite qui leur ressemble. Leurs aptitudes à assimiler les règles de la mondialisation et à transformer l’argent en puissance politique et la puissance politique en argent, terrifient les vieilles élites kémalistes. Dépossédés de leur emprise économique, les Turcs blancs voient le parapluie étatique s’étioler sous les coups de boutoir conjuguer de la mondialisation et du processus d’adhésion à l’Union Européenne.

Les dirigeants de l’AKP conçoivent ce combat autant sous le prisme d’une lutte de classe que celui d’une guerre culturelle. La classe moyenne montante, tout en s’élevant, ne renonce pas à ses anciennes valeurs ; elle se contente juste de les redéfinir à l’aune de la modernité technique. L’AKP ne vise pas à l’élimination de ses adversaires mais à l’amener à se transformer de l’intérieur, à adopter une nouvelle conception de l’organisation sociale et politique. La conquête éthique des strates supérieures de la société est la meilleure manière d’enraciner durablement une assise. L’hégémonie culturelle est censée amener au final un changement global de régime.

Pouvez-vous nous éclairer sur les réseaux Ergenekon ? Qui sont les hommes qui se cachent derrière cette appellation ? Y avait-il un ou plusieurs Etats derrière eux ?

Au sud de la forêt sibérienne, les monts désolés de l’Altaï abritent le berceau originel des premiers turcs. Ces espaces désertiques occupent une place à part dans l’imaginaire national. Ils sont indissociables de la légende de l’Ergenekon. Une louve au pelage gris-bleu aurait recueilli et nourri deux enfants, les derniers survivants d’une tribu turque disparue. Le symbole a été par la suite repris par la droite radicale et l’Etat turc lui-même. Il figure sur les armes de la « République turque de Chypre ». Depuis le milieu des années 1990, le terme d’Ergenekon est associé à l’Etat profond (Derin Devlet).

L’Etat profond renvoie à l’existence d’un groupe formé de hauts fonctionnaires, de militaires, de membres des différents services de sécurité, agissant en marge du gouvernement pour œuvrer à la protection des intérêts nationaux, y compris par des moyens illégaux. L’organisation d’armées occultes remonte à l’époque ottomane. Mustapha Kemal utilise ces réseaux au cours de la guerre d’indépendance. En 1950, ces groupes sont organisés sous l’appellation d’Unité de guerre spéciale (Özel Harp Dairesi). Mission leur est confiée, dans l’hypothèse d’une invasion soviétique, d’organiser la résistance derrière les lignes ennemies. Après l’effondrement de l’URSS, l’activité de ces réseaux se déplace vers le Sud-Est du pays. Ils assurent l’élimination des membres du PKK et la collecte des renseignements. Le recrutement inclut d’anciens repentis du PKK, les Itirafci, et des militants de la droite radicale, proches des Loups Gris. Pourtant, les activités des différentes cellules n’ont jamais été contrôlées de manière centralisée. Les autorités laissent faire sans intervenir. A la fin des années 1990, les succès contre le PKK mettent en sommeil une partie des réseaux de contre-guérilla. D’autres basculent vers le banditisme. Si quelques-uns uns sont restés en relation avec les membres de l’appareil de sécurité et de l’Etat-major, il s’agit avant tout de contacts personnels très cloisonnés.

En réalité, c’est à l’occasion de l’arrivée au pouvoir de Necmettin Erbakan et surtout d’Erdogan que ces réseaux vont connaître une mue. L’anticommunisme avait vu l’arrivée d’un grand nombre de recrues séduites par la synthèse islamo-nationaliste. Avec la dénonciation du danger islamiste par l’armée, cette frange religieuse se trouve en porte à faux avec les nouveaux mots d’ordre de lutte. Il a donc fallu recentrer le vivier de recrutement en dehors des seuls rangs de la droite radicale.

Conséquence  des milieux laïques « respectables », universitaires, journalistiques sont jetés dans la fournaise de la lutte clandestine sans réelle préparation. Autre problème, le Parti d’Action Nationaliste (MHP-Milli Hareket Partisi) en quête de respectabilité renâcle à fournir les cadres nécessaires aux opérations comme elle faisait précédemment avec sa branche jeune (les Loups gris).

Dés lors, les recruteurs sont obligés de se rabattre sur la mouvance nationaliste autonome, moins formée et sans bases arrière véritables. Trop sûrs d’eux, ces réseaux ont eu la certitude que le fait d’agir  pour le bien de la patrie, même à son corps défendant, leur vaudrait l’impunité. Or, à la différence des décennies précédentes, il ne s’agit plus de lutter contre un ennemi subversif en marge de l’Etat, mais contre le gouvernement légitime sorti des urnes. En outre, à la différence de la guerre froide, ces réseaux ne bénéficient plus d’appui à l’étranger. Certes la presse islamiste a pointé du doigt les relations de certains des conjurés avec les cercles eurasistes russes (Alexandre Douguine) ou la mouvance néo-conservatrice américaine la plus radicale (Zeyno Baran). Mais d’un côté comme de l’autre, il s’agit  d’échanges de vues non de la mise en place d’un plan concerté. D’autant que la police fer de lance dans la lutte contre l’Ergenekon est  massivement infiltrée par la confrérie de Fethullah Gülen dont les liens avec la CIA sont avérés.

Mais ces unités de contre-guérilla ne sont pas l’Etat profond en lui-même, tout au plus ses exécutants ponctuels. Dans son extension large, l’Etat profond désigne l’armée. Cette idée est avancée par l’ancien Premier ministre Süleyman Demirel : « L’Etat profond, c’est l’Etat lui-même. L’Etat profond, c’est l’armée. La République est une émanation de l’armée qui a toujours craint l’effondrement de celle-ci. Le pays a besoin de l’Etat profond, sans lui il est désorienté, il y est soudé ».

La crainte majeure de l’Etat profond est de voir passer l’Etat civil sous l’emprise d’organisations  partisanes étrangères à son corpus de valeurs. C’est aujourd’hui le cas avec l’AKP. L’armée souhaite conserver le monopole du politique  par l’Etat. Défendre l’Etat, c’est bloquer l’accès des corps intermédiaires (partis, confréries religieuses) à la formation de la volonté politique.

Le rôle de l’armée est-il vraiment réduit à une peau de chagrin désormais ou n’est-ce qu’une simple illusion ?

La République est indissociablement liée à l’institution militaire. En 1923, l’armée pose les fondements de l’Etat, et l’Etat engendre la nation. Au XIX e siècle après le massacre des Janissaires, l’armée est l’une des rares institutions où l’élément turc domine sans partage. Les élites militaires se sentent naturellement investies de l’identité nationale. L’homogénéité contre l’hétérogénéité, tel est l’enjeu du processus de construction nationale initié par les militaires. Laïcité et intégrité du territoire sont les deux piliers. Sans laïcité, pas de lien national possible, mais sans unité, pas de cohésion politique, et par conséquent pas de laïcité. L’armée est politique puisqu’elle est l’Etat. Contre les antagonismes religieux, ethniques, religieux, sociaux, l’armée assure la sauvegarde de l’Etat et sa continuité à travers le temps.

Avec l’adhésion à l’Union Européenne, cette magistrature politique est directement remise en question. Le dépassement du stade national implique la neutralisation de son gardien : l’armée. Le Conseil de sécurité national est redéfini comme un organe consultatif. Ces recommandations n’ont plus de valeurs  impératives. Sa présidence est confiée à un civil et son secrétariat ouvert aux non militaires. L’ordre du jour des sujets abordés n’est plus fixé arbitrairement. La présence de membre du Conseil dans les  instances de contrôle des universités (YÖK) et de l’information (RTÜK) est éliminée. En matière de justice, l’armée perd ses privilèges. Les tribunaux civils sont habilités à juger les militaires en temps de paix.

L’AKP a parfaitement intégré l’avantage qu’il pouvait tirer du processus d’adhésion et entend bien utiliser « les standards de l’Union Européenne » comme levier d’Archimède. L’armée forme la quadrature du cercle du système républicain. Abaisser l’institution militaire, c’est casser l’Etat autoritaire, libérer l’expression religieuse, briser le rigide corset jacobin, exploser les dernières traverses sur la route de Bruxelles. Erdogan a compris que la laïcité autoritaire est soluble dans l’Europe. Les islamistes et l’UE se rejoignent pour renvoyer l’armée dans ses casernes.

Il existe un très fort malaise dans les forces armées turques. La découverte des projets de complots comme l’opération Balyoz (marteau) qui projetait après une série de provocations (attentats dans les grandes mosquées d’Istanbul, incident aérien avec la Grèce) de renverser l’AKP, a considérablement écorné l’image de l’institution militaire. Les dénégations maladroites et démagogiques de l’Etat-major n’ont pas arrangé les choses. Elles ont au contraire renforcé l’irritation des cadres subalternes qui estiment que l’échelon supérieur a failli à la tache et est incapable de préserver le pays d’un changement de régime.

Les réseaux sociaux de l’armée se font régulièrement l’écho de cette mauvaise humeur. A la pointe de la contestation contre l’AKP se trouve la gendarmerie. En lutte avec la police infiltrée depuis des années par les islamistes, elle voit ses prérogatives rognées les unes après les autres. Longtemps omniprésente dans les campagnes, la figure du gendarme turc est indissociable de la République. Véritable armée intérieure, elle a été pendant des années en première ligne de la révolution kémaliste. Dans les années 20, elle n’hésitait pas à passer par les armes les récalcitrants à l’interdiction du port du fez. Par la suite, elle a été en première ligne dans la lutte contre le séparatisme kurde et la collecte de renseignements sur la réaction religieuse. Il n’est donc nullement fortuit de constater l’implication  du service de renseignement de la gendarmerie, le JITEM,  dans le dossier Ergenekon.

A contrario, d’autres armes apparaissent plus perméable aux changements. L’armée de l’air serait  en proie à l’entrisme des confréries religieuses. Par ailleurs, le fait que régulièrement des plans d’opération ou des rapports d’Etat-major sortent dans la presse, indique que l’institution est contaminée. Les regards se tournent avec insistance en direction de la confrérie de Fethullah Gülen qui s’est faite remarquée dans le passé par des campagnes de prosélytisme dans les lycées militaires.

Les militaires ont conscience de la popularité de l’AKP, véritable incarnation du pays réel. Cependant, l’armée n’a pas renoncé à intervenir dans le champ politique. Elle attend le moment propice pour apparaître comme un recours face au désordre. La stratégie de la crise permanente orchestrée par l’AKP, a pour conséquence, de dresser les institutions les unes contre les autres (police contre armée, gouvernement contre haute-magistrature, gouvernement contre médias indépendants). Aussi, à l’occasion d’un faux pas des islamistes pris de démesure, elle pourrait se présenter comme la  garante de la paix civile et de la séparation des pouvoirs. Cela ne prendrait pas la forme d’un pronunciamiento classique avec parades des chars dans les rues d’Ankara, mais plutôt celle d’un communiqué symbolique en soutient à l’opposition laïque comme en 2007 au moment de l’élection présidentielle. Cependant, cette technique a prouvé à cette occasion ses limites. Sûr de l’appui des Américains et des Européens, plébiscité triomphalement par les urnes, l’AKP avait passé outre l’ultimatum.

Un retour au kémalisme est-il encore jouable ? Si oui, comment et pourquoi ?

Le sociologue italien Vilfredo Pareto remarque que les mêmes idéaux qui sont une force pour l’élite montante, deviennent pour l’élite en place une source de faiblesse quand elle les accepte par mauvaise conscience ou sentimentalisme. Le soutient d’une fraction du patronat laïc et des intellectuels libéraux au processus de démantèlement de l’Etat autoritaire au nom de la démocratisation et de l’intégration à la mondialisation libérale, est symptomatique de cet état d’esprit. L’élite au pouvoir se laisse aller à une forme d’autodénigrement qui finit par saper sa légitimité. Or, si certaines franges de l’establishment laïc ont abandonné le combat, d’autres, à l’image de l’appareil bureaucratique et militaire, s’accrochent avec l’énergie du désespoir à leur rente.

Le problème est que le paradigme kémaliste des anciennes élites est entré en phase terminale. Trop souvent la rhétorique laïque a servi à justifier la domination des Turcs blancs, le pays légal, sur le pays réel, les Turcs noirs. De plus, avec la mondialisation, le processus d’intégration à l’Union Européenne, le projet anglo-saxon d’islam modéré, c’est l’idée même d’Etat-nation, et donc sa religion civique, la laïcité qui est battue en brèche.

Conscients de ces évolutions, les intellectuels kémalistes essayent de réactiver la matrice nationaliste révolutionnaire composante essentielle du kémalisme originel. Cette réhabilitation du concept de nation, passe par de nouvelles convergences. On assiste depuis plusieurs années à travers le mouvement souverainiste (ulusaci) à un rapprochement entre la droite radicale et la gauche kémaliste. Les tenants de cette synthèse (Suat Ilhan, Dogru Perincek, Ümit Özdag, Vural Savas) conjuguent le rejet de l’impérialisme occidental avec celui de l’affirmation d’une identité nationale et étatique forte. Hostiles au processus d’adhésion à l’UE, favorables à la constitution d’un axe continental eurasiatique avec Moscou, rejetant le libéralisme transnational, ce courant fait également appel aux grands canons du kémalisme traditionnel : refus des alliances militaires inégales et donc sortie de l’OTAN, insistance sur l’idée d’une voie particulière au monde turc.
Alternative à l’Union Européenne, l’Eurasisme, rencontre une large audience dans les rangs de l’armée. Mais elle se heurte aux réalités. Tout d’abord, l’armée turque peut difficilement se passer du soutient logistique de Washington. De plus, les deux tiers des échanges commerciaux sont réalisés avec l’Europe. Cependant, le fait que les cercles eurasistes soient directement impliqués dans le dossier Ergenekon laisse transparaître que la lutte entre l’AKP et l’armée masque deux orientations géopolitiques antagonistes.

Comment l’Europe doit-elle se positionner par rapport à cette « nouvelle » Turquie ? Quelle est la meilleure conduite à tenir ?

L’adhésion sincère de l’AKP aux principes de Copenhague ne peut masquer le fait que le processus de démocratisation soit d’abord utilisé à des fins internes. En dehors de la rhétorique convenue sur les Droits de l’homme, le discours européen de l’AKP manque de consistance. Le principal argument utilisé est que « les civilisations ont tout à gagner à échanger entre elles ».

En réalité, le discours de l’AKP essentialise la notion de civilisation. L’Europe n’est pas un club chrétien mais un carrefour, une mosaïque de civilisations bien distinctes. C’est la conclusion à laquelle est arrivée une note de synthèse du Milli Görus (matrice idéologique de tous les partis islamistes turques) : « Lorsque la Turquie sera membre à part entière de l’Union Européenne, l’Europe sera un mélange de beaucoup de cultures et de religions ».

En dehors de l’attachement aux valeurs universelles du droit et de la démocratie libérale, l’Union Européenne n’a pas à affirmer d’identité propre. Cette neutralité culturelle est la condition préalable pour permettre à chacun d’affirmer pleinement son identité. Les Turcs sans complexe jouent la carte de la civilisation, de son côté l’Union européenne continue à vivre dans l’amnésie de sa tradition. Un contraste à méditer !

Comment jugez-vous les dirigeants de l’AKP ? A commencer par Erdogan.

L’une des raisons clefs du succès de l’AKP réside dans la personnalité charismatique de ses leaders. Croyant, d’extraction modeste, en retrait du système kémaliste, l’électorat populaire peut sans peine s’identifier à Tayip Erdogan et Abdulhah Gül. Ils correspondent à deux idéaux types profondément ancrés dans l’imaginaire collectif : Gül le Magdur, Erdogan le Kabadayi. Gül devient Magdur (celui qui a subi une injustice) à l’occasion des élections présidentielles de 2007, suite au veto initial mis à sa candidature par l’armée. Un Kabayi est « un coq de village ». Autoritaire, paternaliste, il  construit sa réputation sur un sens de l’honneur affirmé. Il est le protecteur des faibles contre les puissants qui en échange lui doivent allégeance.

Erdogan est né en 1954 à Rize au bord de la Mer Noire. Alors qu’il est âgé de treize ans, sa famille déménage à Istanbul dans le quartier populaire de Kasimpasa. Un quartier bigarré où s’entassent migrants des campagnes anatoliennes, gitans et caïds de la pègre locale. Erdogan est le cadet d’une fratrie de cinq enfants. Dés l’âge de seize ans, il conjugue son engagement politique au sein de la branche jeune du Parti du salut national avec sa passion pour le football. A partir du collège, il suit une scolarité dans un établissement religieux. A l’origine, les écoles imam hatip, coiffées par le ministère de l’Education ont pour mission la formation du futur desservant du culte. Mais en 1973, elles sont autorisées à préparer leurs élèves à l’enseignement supérieur. Les élèves sont socialisés dans une atmosphère où prime avant tout l’adhésion aux normes islamiques. A l’exception de ces aspects techniques, le processus d’occidentalisation y est sévèrement critiqué. Encore aujourd’hui, Erdogan ne manque jamais une occasion de rappeler ce qu’il doit à son éducation.

Une fois diplômé, Erdogan commence à travailler pour l’organisme public de transport public de la municipalité d’Istanbul, emploi qu’il abandonne rapidement pour le secteur privé à la suite d’un incident avec l’un de ses supérieurs qui lui reprochait sa barbe. Il travaille pour la grande firme de l’agroalimentaire, Ülker, proche de la mouvance islamiste. En 1984, le Parti de la prospérité a pris la suite du Parti du salut national interdit par les militaires. Erdogan devient responsable pour le quartier de Beyoglu (l’un des plus occidentalisés de la ville).

Il se fait remarquer dès cette époque pour sa plasticité. Il utilise des jeunes filles non voilées pour faire du porte à porte chez les particuliers. Cette stratégie élastique s’avère payante puisqu’il est élu en 1994 comme maire d’Istanbul.

A la tête d’un ensemble de plusieurs millions d’habitants, Erdogan fait preuve de qualités de gestionnaire reconnues, y compris par ses adversaires politiques. A cet échelon, la politique est une question de solutions pratiques. Il faut d’abord répondre aux besoins élémentaires de la population en matière de services. Cette méthode sera transposée au niveau national avec succès à partir de 2002. Symbole fort, il réhabilite le passé ottoman de l’ancienne capitale impériale et fait du jour de la chute de Constantinople (Fetih-29 mai 1453) un événement culturel majeur.

La vision de l’islam d’Erdogan est triple : la religion est un ciment identitaire, le vecteur d’un réseau social, un capital spirituel dont les exigences peuvent être réinvesties en politique.

En 1998, Erdogan est condamné à une peine de prison ferme pour incitation à la haine parce qu’il a déclamé en public un an auparavant à Sirt, dans le Sud-Est anatolien, un poème de Ziya Gökalp (père du nationalisme turc) : « Les minarets sont nos baïonnettes, les mosquées nos casernes ». Dans ce discours controversé, Erdogan se démarquait des nationalismes ethniques et vantait l’islam comme lien commun aux Kurdes et aux Turcs. L’identité nationale dans l’esprit d’Erdogan, c’est l’islam.

Cette césure avec la conception traditionnelle de l’Etat-nation marque la ligne de partage des eaux avec les nationaux-républicains du CHP et les nationaux-radicaux du MHP. Elle explique en grande partie l’approche plus souple de l’AKP sur le dossier kurde et chypriote. La détention d’Erdogan a fait de lui aux yeux de la frange conservatrice de l’opinion une victime de l’arbitraire d’un système. Beaucoup de Turcs vivant en marge de la légalité (construction illégale, économie informelle, croyance, style de vie) s’identifient sans peine à cet homme comme eux en rupture de ban.

Comment voyez-vous évoluer la situation turque dans les dix ans ?

Il est très périlleux de faire des prévisions précises mais depuis trois décennies des tendances lourdes sont perceptibles. A partir des années 1980, la mondialisation associée à la libéralisation de l’économie, l’adhésion à l’Union Européenne, ouvrent la Turquie. Les échelles sont progressivement brouillées. Le cadre national se retrouve compressé entre le local et le global.

A la différence de l’élite laïque aux rigides conceptions jacobines, les élites islamistes se sont coulées dans la nouvelle donne. Une classe entrepreneuriale est née. La Turquie expérimente un double et simultané processus d’intégration et de polarisation. Alors que le fossé entre ville et campagne, masses conservatrices et Etat, s’est réduit, les secteurs les plus laïcs sont expulsés des couloirs des instances dirigeantes. Entre 1999 et 2006, le segment de la population se définissant d’abord comme musulman est passé de 36 à 45%. Bousculant le triptyque Etat-laïc, Etat-unitaire, Etat-nation, les valeurs traditionnelles alliées à l’économie de marché ont remporté la bataille culturelle. Cette éthique entrepreneuriale (tüccar siyaseti) se propage. L’individu s’enrichit et en fait bénéficier la communauté. Loin des foudres de l’Etat kémaliste, les groupes confrériques nakshibendis ou nurcu ont su investir, les réseaux de l’information ou de l’éducation. La société civile prend le relais de l’Etat providence et le retrait de l’Etat devient synonyme de renouveau spirituel.  Ces changements vont de pair avec une approche moins pessimiste de l’existence ; la richesse engendrée par la libération des énergies ruisselle sur la société et prévient la tentation nihiliste.

Avec le soutien d’Européens candides  et d’Américains manipulateurs (même si des nuances existent entre les diplomates favorables à l’AKP et le Pentagone plus sceptique), la Turquie est en train d’opérer une véritable révolution conservatrice et de basculer. Synonyme d’archaïsme social, d’obscurantisme religieux, l’islam était le miroir négatif de l’identité turque. Aujourd’hui, l’AKP veut en faire le ciment du futur pacte social. Les premiers cercles du pouvoir sont solidement tenus en main par des islamistes formés dans le moule du Milli Görus. Les organes de sécurité : police, services de renseignements sont tombés dans l’escarcelle des confréries. Le parcours du nouveau directeur du MIT ( Milli Istihbarat Teskilati-service national de renseignement) est à cet égard éloquent. Un deuxième cercle  constitué de ralliés et de décideurs économiques soutient le noyau dur par opportunisme et intérêt bien compris.

La démocratie est le dernier pilier de cette Turquie nouvelle. Elle légitime l’expression des aspirations profondes du pays réel, jusqu’alors brimé par le pays légal. La démocratie passe avant la satisfaction des besoins de l’Etat, par conséquent elle prend le pas sur la laïcité.

Propos recueillis par Maurice Gendre

mardi, 08 mars 2011

Armenia e Israele - limiti e prospettive della politica estera turca

545280-665927.jpg

Armenia e Israele – limiti e prospettive della politica estera turca

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Obiettivi e finalità della nuova politica estera turca

lundi, 07 mars 2011

Kampf um das "Weisse Gold"

Kampf um das »Weiße Gold«

Michael Grandt

Rohstoffe werden immer begehrter und sowohl wirtschaftlich als auch strategisch immer wichtiger. Ausgerechnet Bolivien, das ärmste Land Südamerikas, sitzt auf einem riesigen Lithium-Schatz und könnte durch den Abbau zu ungeahntem Reichtum kommen. Doch die Regierung will sich von internationalen Multis nicht übers Ohr hauen lassen.

Mehr: http://info.kopp-v http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mic...

Von der Weltöffentlichkeit beinahe unbemerkt vollzieht sich in Südamerika, genauer gesagt in Bolivien, ein Kampf um das »Weiße Gold«. Gemeint ist das seltene Alkalimetall namens Lithium. Dieses wird vor allem für den Bau von Lithium-Ionen-Akkumulatoren für viele elektronische und elektrische Geräte verwendet. Auch wegen seiner Energiedichte und hohen Zellspannung ist Lithium ein wertvoller Rohstoff für die Automobilproduktion.

Mehr:

Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?

roumanie-map-minor.gif

“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”

Intervista a C. Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.


***

 

 

Un’isola latina nel mare slavo dell’est Europa. La percezione generale della Romania non va oltre un paio di luoghi comuni e di tanta mancanza d’informazione.
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.

 

Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.

Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.

Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.

Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.

Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.

Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.

dimanche, 06 mars 2011

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

Wolfgang Effenberger

Nachdem am 26. Februar 2011 US-Präsident Barack Obama finanzielle Sanktionen gegen Libyen beschlossen hat, werden nun  auch militärische Optionen nicht mehr ausgeschlossen. Eine derart schnelle Reaktion war bisher nur zu beobachten, wenn wirklich handfeste US-Interessen auf dem Spiel standen. Das war zum Beispiel der Fall, als die Vereinigten Staaten Ende Oktober 1983 im Rahmen der Operation »Urgent Fury« die idyllische Karibikinsel Grenada handstreichartig besetzten und damit die ihnen nicht genehme Linksentwicklung des Landes beendeten. Am 20. Dezember 1989 fielen US-Streitkräfte in Panama ein. Die Operation »Just Cause« hatte das Ziel, den ungehorsam gewordenen panamaischen Machthaber, General Manuel Noriega, zu verhaften und ihn in die Vereinigten Staaten zu entführen. Dort wurde er wegen Drogenhandels und Geldwäsche angeklagt und am 10. Juli 1992 zu 40 Jahren Haft verurteilt. 

In vielen Fällen setzten die USA nicht nur direkte Aggression, Subversion und Terror als politische Waffe ein, sondern sie unterstützten auch derartige Methoden bei Satellitenstaaten. So führte das NATO-Mitglied Türkei massive ethnische Säuberungen und andere Terroraktionen durch, wobei die Regierung Clinton noch durch umfangreiche Waffenlieferungen dazu beitrug, als die Verbrechen gegen die Zivilbevölkerung ihren Höhepunkt erreichten. (1)

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Udo Ulfkotte

 

Während man sich in Deutschland mit einem zurückgetretenen Verteidigungsminister beschäftigt, ist die Weltpolitik mit Themen ganz anderer Dimension befasst: Obwohl Saudi-Arabien versprochen hat, alle libyschen Öl-Lieferausfälle auszugleichen, steigen die Preise jetzt wieder. Denn an den Ölmärkten erwartet man nicht nur weitere Revolutionen, sondern Krieg. Und beim großen Länder-Domino kommt jetzt auch revolutionäre Bewegung in die Ölexporteure am Kaspischen Meer. Und Saudi-Arabien hat nicht die geringste Chance, die drohenden Lieferausfälle auszugleichen. All das blenden wir derzeit gern noch politisch korrekt aus. Dafür werden wir bald alle gemeinsam einen hohen Preis zahlen müssen - nicht nur an den Tankstellen.

 

 

Die Funken der Revolution springen gerade auf die Ölexporteure am Kaspischen Meer über. Aserbaidschan ist einer der großen neuen Ölexporteure in dieser Region. In Baku bereitet sich die Jugend gerade darauf vor, das Regime hinwegzufegen. Länder wie Aserbaidschan, Turkmenistan und Kasachstan sind extrem wichtig für den westlichen Energiehunger. Es besteht kein Zweifel daran, dass es in Aserbaidschan gärt. Das Regime rüstet jetzt erst einmal auf. Auch in Turkmenistan rüstet sich die Jugend für die Revolte. Und in Kasachstan und Kirgisien wird es ebenfalls nicht mehr lange dauern, bis wir Bilder von blutigen Revolten im Fernsehen präsentiert bekommen. Das alles wird aus der Sicht eines durchschnittlichen Europäers völlig überraschend kommen, denn die Medien informieren uns ja nicht einmal über die Unruhen in Oman - ebenfalls ein Öl- und Gasexporteur. Es scheint, dass viele Journalisten beim Länder-Domino inzwischen schlicht den Überblick verloren haben.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...